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L'enciclica di Leone XIII: Rerum Novarum

Il testo dell'enciclica Rerum Novarum

La Rerum Novarum è un'enciclica di Leone XIII del 15 maggio 1891. Questo testo sulla base di una concreta analisi socio-economia sulla condizione dei lavoratori nel processo innestato dalla cosiddetta rivoluzione industriale, indica l'esigenza di politiche a tutela di quanti sono vittime di logiche di sfruttamento e incoraggia le esperienze innovative che si registrano nel mondo cattolico. In particolare Leone XIII richiama agli obblighi di giustizia. Ai padroni ricorda che occorre lasciare all'operaio "comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi". Chi lavora non deve essere esposto a seduzioni che corrompono e a pericoli di scandalo; non deve essere allontanato dallo spirito di famiglia e dall'amore del risparmio; non deve essere sottoposto a compiti sproporzionati alle proprie forse, o non adatti all'età e al sesso; deve ricevere inoltre una giusta retribuzione economica. Il Papa affronta inoltre anche il tema del ruolo dello stato. Questi deve tutelare i proletari con le leggi e con valide istituzioni; deve fare in modo che anche l'operaio partecipi in qualche modo alla ricchezza che egli stesso produce. Inoltre deve intervenire contro gli avidi speculatori che "abusano delle persone come fossero cose", deve garantire il riposo di chi lavora, deve tutelare le donne e i fanciulli. Leone XIII auspica inoltre il diffondersi delle società di mutuo soccorso e di società miste di operai e padroni (1).

La teologia morale già dal 1600 non si occupava più di un'adeguata riflessione etico-sociale cristiana, e anche in questo caso la teologia morale si mostrava impreparata a raccogliere la sfida prodottasi dalla rivoluzione industriale. Toccò quindi al magistero far fronte a queste questioni, è quest'ultimo a sentire per primo i problemi del lavoro e a stimolare i cristiani affinché si rendessero conto del conflitto capitale-lavoro e delle condizioni disumane degli operai che erano prodotte dalla rivoluzione industriale. Con questa enciclica si iniziò quindi la Dottrina sociale della Chiesa.

Storia

Per capire bene la novità di questa enciclica e il suo reale apporto è importante andare a calarsi nel contesto storico che vede nascere questo testo. Giovanni Paolo II nell'enciclica Centesimus annus descrive così la situazione storica: "Sul finire del secolo scorso la Chiesa si trovò di fronte ad un processo storico, in atto già da qualche tempo, ma che raggiungeva allora un punto nevralgico. Fattore determinante di tale processo fu un insieme di radicali mutamenti avvenuti nel campo politico, economico e sociale, ma anche nell'ambito scientifico e tecnico, oltre al multiforme influsso delle ideologie dominanti. Risultato di questi cambiamenti era stata, in campo politico, una nuova concezione della società e dello Stato e, di conseguenza, dell'autorità. Una società tradizionale si dissolveva e cominciava a formarsene un'altra, carica della speranza di nuove libertà, ma anche dei pericoli di nuove forme di ingiustizia e servitù. In campo economico, dove confluivano le scoperte e le applicazioni delle scienze, si era arrivati progressivamente a nuove strutture nella produzione dei beni di consumo. Era apparsa una nuova forma di proprietà, il capitale, e una nuova forma di lavoro, il lavoro salariato, caratterizzato da gravosi ritmi di produzione, senza i dovuti riguardi per il sesso, l'età o la situazione familiare, ma unicamente determinato dall'efficienza in vista dell'incremento del profitto. Il lavoro diventava così una merce, che poteva essere liberamente acquistata e venduta sul mercato ed il cui prezzo era regolato dalla legge della domanda e dell'offerta, senza tener conto del minimo vitale necessario per il sostentamento della persona e della sua famiglia. Per di più, il lavoratore non aveva nemmeno la sicurezza di riuscire a vendere la «propria merce», essendo continuamente minacciato dalla disoccupazione, la quale, in assenza di previdenze sociali, significava lo spettro della morte per fame. Conseguenza di questa trasformazione era «la divisione della società in due classi separate da un abisso profondo»: tale situazione si intrecciava con l'accentuato mutamento di ordine politico. Così la teoria politica allora dominante cercava di promuovere, con leggi appropriate o, al contrario, con voluta assenza di qualsiasi intervento, la totale libertà economica. Nello stesso tempo, cominciava a sorgere in forma organizzata, e non poche volte violenta, un'altra concezione della proprietà e della vita economica, che implicava una nuova organizzazione politica e sociale.Nel momento culminante di questa contrapposizione, quando ormai apparivano in piena luce la gravissima ingiustizia della realtà sociale, quale esisteva in molte parti, ed il pericolo di una rivoluzione favorita dalle concezioni allora chiamate «socialiste», Leone XIII intervenne con un Documento che affrontava in modo organico la «questione operaia»" (Centesimus annus n.4).

Nel corso degli anni 80 la tradizionale impostazione cattolica esposta anche da Leone XIII nell'enciclica Auspicato Concessum del 17 settembre 1882 ("Infine, anche la difficoltà che travaglia le menti degli uomini di governo sul modo di equamente comporre le ragioni dei ricchi e dei poveri, resta mirabilmente sciolta una volta che sia scolpita negli animi la persuasione che la povertà non è per se stessa spregevole: occorre che il ricco sia caritatevole e munifico; che il povero sia rassegnato e attivo, e poiché nessuno dei due è nato per i mutabili beni della terra, gli uni con la sofferenza, gli altri con la liberalità si procurino di raggiungere il cielo") inizia ad essere sottoposta alle tensioni sociali crescenti, cui si collegava un dibattito sempre più ricco e maturo. Le drammatiche condizioni di vita sia nelle campagne sia nel proletariato urbano rendevano improrogabile un aggiornamento dottrinale e un intervento operativo conseguente, superando schemi completamente obsoleti. Per quanto riguarda l'Italia basta ricordare che un bambino su 5 moriva entro il primo anno di vita, che l'età media degli italiani era di 37 anni, che gli orari di lavoro nelle fabriche oscillavano tra le 14 e le 16 ore giornaliere, senza tutela di sorta per donne e fanciulli, che malattie legate alle denutrizione colpivano tanto i contadini quanto gli operai. Così nell'ottobre del 1889 Leone XIII di fronte agli operai cattolici giunti in pellegrinaggio a Roma disse "i vostri avversari non sospettano i principi fondamentali dell'ordine sociale cristiano! bene, non temete. Il papa li farà conoscere. Aspettate la mia prossima enciclica"(2).

Con la Rerum Novarum, Leone XIII seppe entrare nel delicato campo della questione operaia. Il rapporto operaio-padroni, retto dalla cultura indotta da Ricardo e Smith, era fondato sull'amoralità in campo economico. Tra gli operai e molti di coloro che avevano a cuore la questione sociale del tempo aveva fatto presa la cultura marxiana, appoggiata da correnti socialiste di vario genere, che prospettava una vera e propria rivoluzione, unico mezzo per spazzare via il capitalismo selvaggio. Quella che porta Leone XIII non è una concezione scontata questo si può notare ad esempio nel testo di Bernanos Diario di un curato di campagna in cui pone sulle labbra di un personaggio la seguente affermazione: "la famosa enciclica di Leone XIII, Rerum Novarum, voi la leggete tranquillamente, coll'orlo delle ciglia, come una qualsiasi pastorale di Quaresima. Alla sua epoca ci è parso di sentirsi tramare la terra sotto i piedi. Quale entusiasmo!... Quest'idea così semplice che il lavoro non è una merce, sottoposta all'offerta e alla domanda, che si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini come sul grano, sullo zucchero o il caffè, metteva sottosopra le coscienze, lo credi? Per averla spiegata in cattedra alla mia buona gente son passato per un socialista e i contadini benpensanti m'hanno fatto mandare a Montreuil, in disgrazia"(3). Anche Pio XI nella sua enciclica Quadragesimo anno descrive la difficoltà di accettare le parole di Leone XIII da parte di alcuni cattolici: "Tuttavia la dottrina di Leone XIII così profonda e così inaudita al mondo, non poteva non produrre anche in alcuni cattolici una certa impressione di sgomento, anzi di molestia e per taluni anche di scandalo. Essa infatti affrontava coraggiosamente gli idoli del liberalismo e li rovesciava, non teneva in nessun conto pregiudizi inveterati, preveniva i tempi oltre ogni aspettazione; ond'è che i troppo tenaci dell'antico disdegnavano questa nuova filosofia sociale, e i pusillanimi paventavano di ascendere a tanta altezza; taluno anche vi fu, che pure ammirando questa luce, la reputava come un ideale chimerico di perfezione più desiderabile che attuabile" (4).

Se da un lato il pronunciamento di Leone XIII non era così scontato e facile, dall'altro c'è da dire che questo non significa che prima di lui non ci fossero stati fermenti in quello che verrà chiamato il cattolicesimo sociale. In Francia, ad esempio, si ebbero sin dagli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento autorevoli pronunciamenti dell'episcopato, anche se nel complesso l'orientamento della maggioranza risultava conservatore e privo di aperture. Nel 1842 l'arcivescovo di Lione Maurice de Bonald denunciò in una lettera pastorale per la quaresima la riduzione della dignità umana dell'operaio ad un pezzo di macchina, l'anno seguente l'arcivescovo di Parigi, mons. Denis-Auguste Affre affrontò un'analisi globale del nuovo sistema economico, analizzando i costi umani dell'economia liberale. Ancora nel 1845 anche l'arcivescovo di Cambrai mons. Giraud intervenne con un importante testo sui problemi del lavoro. Attorno alla metà del secolo, mentre Frederic Ozanam fondava le Conferenze di S.Vincenzo (un movimento di apostolato caritativo e di azione sociale fondato nel 1833), Philippe Buchez affinava la sua proposta di un socialismo cristiano e di un superamento della condizione salariale. Più avanti due aristocratici, Albert de Mun e Renè de la Tour du Pin. Nel 1889 il Cardinale Edward Manning arrivò ad appoggiare apertamente lo sciopero dei portuali londinesi. Anche negli Stati Uniti il movimento dei Cavalieri del Lavoro si dedicò con passione alla soluzione della questione sociale, assumendo i connotati di un vero e proprio sindacato e provocando di conseguenza polemiche e dibattiti all'interno della Chiesa. Giuseppe Toniolo offrì un contributo importante nella costruzione di una proposta sociale cattolica, sia direttamente con i suoi scritti, sia tramite l'Unione cattolica per gli studi sociali fondata nel 1889. Altrettanto rilievo ebbe lo sforzo di elaborazione compiuto dal colleggio degli scrittori della Civiltà Cattolica e particolarmente i padri Curci, Taparelli, Liberatore e Bresciani. Proprio al padre Liberatore si devono ampie riflessioni sul tema dell'economia politica, del lavoro, dello sfruttamento operaio, dell'intervento dello stato nella questione sociale: soprattutto la serie di articoli pubblicata tra il 1887 e il 1890 costituì un diretto contributo alla Rerum Novarum, ponendo già in chiaro il significato positivo del lavoro umano, l'intangibilità della dignità umana e la denuncia dello sfruttamento da parte dell'ingordigia di crudeli intraprenditori. Di grande importanza anche l'Unione internazionale cattolica di studi sociali ed economici, attiva a Friburgo dal 1884 con il diretto sostegno del vescovo locale mons. Gaspar Mermilod. L'unione si adoperò per far adottare nei vari paesi una legislazione sociale adeguata e per dare agli stessi cattolici un indirizzo comune.

Tutto questo per dire che la dottrina sociale di Leone XIII non scaturì dal nulla ma da un complesso di esperienze e di idee elaborate faticosamente nel corso dei decenni. In ogni caso alla fine dell'Ottocento, restavano da chiarire punti particolarmente delicati come quelli che riguardavano ad esempio i poteri di intervento dello Stato ed i rapporti tra la sfera politica e quella economica. Per diversi esponenti del cattolicesimo lo Stato aveva, entro certi limiti, il diritto di intervento per dettare ad esempio livelli minimi di salario e norme a tutela dei lavoratori, per altri il liberismo economico era intoccabile e i suoi effetti negativi avrebbero dovuto essere compensati solo tramite l'azione caritativa della Chiesa. Attorno al concetto ed alla prassi del cattolicesimo sociale permanevano incomprensioni e ritardi di tipo culturale, limiti di comprensione delle trasformazioni già avvenute o in atto(5).

Nei secoli XVIII e XIX la vita civile assume una configurazione profondamente diversa da quella dei secoli precedenti, l'attenzione non è più così fissata a un bene trascendente, questo è riservato al singolo, alla libertà del singolo, ma si punta al rapporto tra società e Stato. Con la figura dello stato aconfessionale che si fonda sulla libertà del pensiero, la Chiesa non può più avere un ruolo centrale nella società. La Chiesa risponde con un atteggiamento polemico di netto rifiuto, questa posizione si vede anche in:

  • Inscrutabili Dei Consilio (1878) e Quod Apostolici Muneris (1878): sul problema dell'autorità, è netta la condanna di quanti "ricusano l'obbedienza e predicano la perfetta eguaglianza di tutti nei diritti e negli uffici" dal momento che ai poteri superiori , secondo l'avviso dell'Apostolo, conviene che ogni anima si tenga soggetta (QAM 1). E' la natura infatti a stabilire l'ineguaglianza di diritti e potestà.

  • Arcanum (1880): sulle problematiche della famiglia a fronte della nuova società industriale

  • Diuturnum (1881) dedicata alla legittimazione dell'autorità, si esprime prima la concezione moderna per poi criticarla, con una esortazione finale a ricostituire il rapporto armonico tra Chiesa e principi;

  • Immortale Dei (1885) relativa alla concezione cristiana dello stato e al suo dovere di fondarsi sulla vera religione. "L'autorità sovrana, per sè. non è di necessità legata a nessuna forma di governo in particolare: è in poter suo assumere or l'una or l'altra, purchè capaci di cooperare al benessere e all'utilità pubblica" (Immortale Dei n.4)

  • Libertas (1888) sui limiti della concezione moderna di libertà

  • Sapientiae Christianae (1890) sui doveri e le direttive dell'impegno cristiano nella società e nella politica

Secondo Leone XIII, la società può risolvere tutti i suoi problemi solo se in tutte le sue articolazioni e istituzioni riflette la legge morale e religiosa, insegnata e interpretata dalla Chiesa. Alla società moderna e industriale conflittuale e violenta, Leone XIII, oppone una società cristiana solidaristica e corporativa. Resta in piedi il quadro di riferimento tradizionale con la sottolineatura dell'origine divina del potere politico e civile e della necessità di una perfetta integrazione tra di esso e il potere religioso. Così era priva di incrinature la convinzione che solo il fondamento religioso poteva preservare dalle sedizioni e dalle rivolte. Nell'immagine naturale la società è considerata come un corpo, le cui singole parti sono differenti ma cooperano tra di loro in maniera organica. In quest'ottica va inteso il richiamo che ritroviamo al n.16 dell'enciclica "Innanzi tutto, l'insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all'operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l'opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l'uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l'opera propria. Quello che veramente è indegno dell'uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell'anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all'operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall'amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l'età e con il sesso"(6).

L'intera società civile viene vista come una grande famiglia di tipo patriarcale, cosicché l'autorità civile viene rivestita di una responsabilità educativa rispetto al popolo. La soluzione è ricostituire la cristianità, per trovare nel vangelo le soluzioni atte a risolvere i contrasti. Compito della Chiesa è quello di richiamare le autorità civili affinché operino al fine di edificare tale ordine sociale, il quale sarà caratterizzato sul piano socio-culturale dalla presenza della morale e dalla visione cristiano-cattolica, sul piano socio-economico dalla definizione del rispetto dei diritti e dei doveri di padroni e operai (n.10).

Il lavoro industriale incise in maniera rilevante nel cambiamento sociale e provocò problemi inediti:

  • Lavoro minorile e femminile fuori dalla famiglia

  • Bassi e insufficienti salari

  • Orari e condizioni di lavoro insostenibili

  • Disgregazione delle solidarietà familiari e di territorio

  • Perdita di leggittimità delle autorità tradizionali

  • Mancanza di sicurezza sociale (7)

Enciclica

Il travaglio redazionale dell'enciclica fu particolarmente lungo, fino al punto di far porre alla stampa interrogativi sulla reale possibilità di arrivare a un testo ufficiale. Si ebbero infatti tre schemi in lingua italiana, seguite da due distinte versioni latine che precedettero il testo definitivo. In questo lavoro risultarono particolarmente coinvolti il padre gesuita Matteo Liberatore, per un quarantennio tra i più colti ed attenti commentatori politici della Civiltà Cattolica ed autore di numerosi studi sulle questioni sociali e sull'economia politica seguendo le proposte della scuola di Friburgo ed il cardinal Tommaso Zigliara, un domenicano cultore di studi filosofici e teologici in chiave tomista.

Tutta l'enciclica è dedicata infatti alla questione sociale e alla sua soluzione: dalla introduzione, dove si definisce la questione sociale, ad una prima parte dove si condanna la falsa soluzione socialista, contrapposta a quella cristiana, che viene poi delineata nella seconda parte, secondo i vari diritti e doveri di giustizia e carità da parte di operai e padroni e secondo i differenti apporti della Chiesa e dello Stato, nel quadro di uno stabile orientamento sociale. Contro il socialismo l'enciclica:

  1. Ribadiva la funzione della proprietà privata intesa come diritto di natura, lo fa ai n. 4.5 "A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l'odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l'eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l'ordine sociale. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l'artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d'investire come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l'accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all'operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione"(8).

  2. Un secondo punto di contestazione riguardava la condizione della famiglia queste le parole del Papa: "Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all'individuo va applicato all'uomo come capo di famiglia: anzi tale diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa e completa è nel consorzio domestico la sua personalità. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole... Come la convivenza civile così la famiglia, secondo quello che abbiamo detto, è una società retta da potere proprio, che è quello paterno. Entro i limiti determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e l'uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla sua legittima indipendenza, diritti almeno eguali a quelli della società civile. Diciamo almeno eguali, perché essendo il consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri. Che se l'uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare."(9). Giovanni Paolo II nell'enciclica Centesimus annus dirà "Secondo la Rerum novarum e tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell'uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana, hanno — sempre dentro il bene comune — la loro propria autonomia. È quello che ho chiamato la «soggettività» della società che, insieme alla soggettività dell'individuo, è stata annullata dal «socialismo reale»", e ancora "l'errore fondamentale del socialismo è di carattere antropologico. Esso, infatti, considera il singolo uomo come un semplice elemento ed una molecola dell'organismo sociale, di modo che il bene dell'individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d'altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al male. L'uomo così è ridotto ad una serie di relazioni sociali, e scompare il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione morale, il quale costruisce mediante tale decisione l'ordine sociale"

  3. Contro il socialismo si afferma anche la naturalità delle diseguaglianze sociali "togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile" (10) e di conseguenza ad insistere sulla necessità della concordia tra le classi.

Leone XIII già al n.2 dell'enciclica denuncia le circostanze che avevano lasciato gli operai "soli e indifesi ed in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza", e così l'enciclica:

  1. A proposito dell'entità del salario, si oppone alla dottrina liberale dei salari determinati esclusivamente dalla legge della domanda e dell'offerta: "La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l'intera mercede o l'operaio non presta tutta l'opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l'intervento dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose non può consentire né facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l'attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte (Gen 3,19). Ha dunque il lavoro dell'uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all'uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si guarda solo l'aspetto della personalità, non v'è dubbio che può l'operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l'opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente sí riducono al salario del proprio lavoro. L'operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell'operaio, frugale si intende, e di retti costumi"(11). Nel determinare la retribuzione del lavoro si deve tener conto delle esigenze del diritto naturale.

  2. Difende la dignità dell'uomo e lo fa facendo vedere l'apporto positivo del lavoro come visto nel n.4 della Rerum Novarum, quando si ricorda l'importanza della proprietà privata. Il lavoro procede immediatamente dalla persona e ad essa perciò corrispondono i frutti del suo lavoro. Il Papa sostiene inoltre il dovere di intervento dello stato nel mondo del lavoro per il bene comune, "È quindi giusto che il governo s'interessi dell'operaio, facendo si che egli partecipi ín qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato"(12). La dignità umana è difesa anche al n.32 dove si afferma che "a nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell'uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all'acquisto della vita eterna" (13) e ancora al n.34 "prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all'inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose" (14).

  3. Fatica e pena erano elementi particolarmente evidenti nella condizione del lavoro operaio dopo la rivoluzione industriale. L'uomo non è in grado di liberarsi completamente dalla penosità del lavoro, nè dalle disparità sociali, coloro che dicono di poterlo fare in realtà illudono, "il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l'uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v'è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali"(15). Qui Leone XIII si oppone alla teoria socialista, che pretende di esaurire le esigenze ultime di giustizia e di felicità dell'uomo in una risposta unicamente economica e socio-politica, intrastorica, ma si oppone anche all'illuminismo e al liberalismo nella loro esaltazione del progresso come se esso fosse la risposta ultima e definitiva alle aspirazioni dell'uomo. In questo campo potrebbe esserci il rischio di vedere il lavoro in termini di passività e sopportazione e non di positività, impegno creatività, autorevolezza e autorealizzazione.

  4. L'enciclica riporta un'attenzione ai deboli e ai poveri "I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni. Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue"(16). Così Giovanni Paolo II afferma: "La rilettura dell'Enciclica alla luce delle realtà contemporanee permette di apprezzare la costante preoccupazione e dedizione della Chiesa verso quelle categorie di persone, che sono oggetto di predilezione da parte del Signore Gesù. Il contenuto del testo è un'eccellente testimonianza della continuità, nella Chiesa, della cosiddetta «opzione preferenziale per i poveri»" (Centesimus annus n.11)

  5. L'enciclica dà spazio infine all'associazionismo operaio, colto soprattutto nella formula del mutuo soccorso, e senza dimenticare il modello medievale delle associazioni di arti e mestieri "Il sentimento della propria debolezza spinge l'uomo a voler unire la sua opera all'altrui. La Scrittura dice: E' meglio essere in due che uno solo; perché due hanno maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto dall'altro"(17).

In sintesi la Rerum novarum, come afferma Giovanni Paolo II "si oppone alla statalizzazione degli strumenti di produzione, che ridurrebbe ogni cittadino ad un «pezzo» nell'ingranaggio della macchina dello Stato. Non meno decisamente essa critica la concezione dello Stato che lascia il settore dell'economia totalmente al di fuori del suo campo di interesse e di azione. Esiste certo una legittima sfera di autonomia dell'agire economico, nella quale lo Stato non deve entrare. Questo, però, ha il compito di determinare la cornice giuridica, al cui interno si svolgono i rapporti economici, e di salvaguardare in tal modo le condizioni prime di un'economia libera, che presuppone una certa eguaglianza tra le parti, tale che una di esse non sia tanto più potente dell'altra da poterla ridurre praticamente in schiavitù" (n. 15).

Di fronte a questi problemi non mancarono, negli ambienti cattolici e nelle chiese locali, persone che singolarmente e attraverso organizzazioni reagirono per eliminare o ridurre i mali. Il cattolicesimo sociale fu un movimento di persone organizzate con lo scopo di contrastare da un lato il diffondersi della mentalità liberale e dall'altro di promuovere interventi a favore delle classi più penalizzate dalle trasformazioni moderne. L'enciclica rappresenta l'epilogo dottrinale e sistematico di un secolo di studi, teorie, esperienze dei cattolici in campo sociale.

La Rerum Novarum rispondeva alla necessità di presentare una proposta pastorale che aiutasse gli operai ad affrontare la situazione nella quale si trovavano. L'obiettivo era quello di influenzare le politiche del lavoro per migliorare le forme lavorative stesse e quindi l'attenuazione degli effetti negativi per la vita dell'uomo. Nell'enciclica c'è una concezione integrale unitaria dell'uomo che ingloba in sè la dimensione mondana e la dimensione trascendente, la dimensione economica e quella spirituale, la dimensione individuale e quella famiglia e la dimensione sociale e politica. Questa concezione integrale dell'uomo include inscindibilmente sempre il riferimento anche alla dimensione escatologica dell'umano, che non è mai esauribile nella realtà di un sistema storico. Di qui l'opposizione ad ogni subordinazione della persona ad uno stato assolutista. Intento quindi della Rerum Novarum è quello di salvaguardare la vocazione integrale dell'uomo lavoratore, da un lato di fronte al capitalismo liberale, che considera del lavoro dell'uomo solo l'aspetto economico e lo riduce a mero elemento di libero mercato, dall'altro lato, a fronte della proposta del socialismo marxista, che portava ugualmente a fare dell'uomo lavoratore un elemento della struttura economica, privandolo della libertà personale e della significatività della sua soggettiva dimensione trascendente.

Reazioni all'enciclica

Per gran parte dei liberali la Rerum Novarum restava espressione di un mondo antiquato, ormai in irreversibile disfacimento e andava quindi esaminata con superiorità e sufficienza, molti quotidiani italiani non diedero affatto notizia dell'avvenuta pubblicazione del documento oppure si limitarono a poche righe di cronaca. In alcuni casi invece l'enciclica fu giudicata espressione di quel socialismo cristiano di cui si andava allora discutendo, lasciando quindi trapelare l'esplicito timore che la Chiesa cattolica potesse un giorno allearsi con il socialismo in odio alle conquiste della civiltà liberale. Solo in pochi commenti l'enciclica fu accolta come una mano tesa dalla Chiesa alla civiltà laica in nome delle ragioni del vivere civile ed in funzione antisocialista.

Chiaramente nel mondo socialista le reazioni non erano affatto positive e Turati critica così l'enciclica: "Confessiamo che, leggendola, ci cascarono e l'animo e le braccia. E' impossibile immaginare cosa più pretenziosamente vuota, più nulla e più inconcludente di quella non mai finita dissertazione [...] in cui la Sua sedicente Santità non isdegna di stemperare e diguazzare i tritumi delle idee più rancide, più sciocche e più confuse che ripetono contro il socialismo i bottegai rusticani"(18).

Ma anche nel mondo cattolico, l'atteggiamento di fronte alla Rerum Novarum, non fu entusiasta. Per quanto riguarda l'Italia solo alcuni vescovi e la stampa intransigente si sbilanciarono in giudizi favorevoli e impegnati, capaci di andare al di là delle citazioni d'obbligo per un documento pontificio(19).

Cento anni più tardi Giovanni Paolo II ricorda la Rerum Novarum con la sua enciclica Centesimus annus "Papa Leone, infatti, previde le conseguenze negative sotto tutti gli aspetti, politico, sociale ed economico, di un ordinamento della società quale proponeva il «socialismo», che allora era allo stadio di filosofia sociale e di movimento più o meno strutturato. Qualcuno potrebbe meravigliarsi del fatto che il Papa cominciava dal «socialismo» la critica delle soluzioni che si davano della «questione operaia», quando esso non si presentava ancora — come poi accadde — sotto la forma di uno Stato forte e potente con tutte le risorse a disposizione. Tuttavia, egli valutò esattamente il pericolo che rappresentava per le masse l'attraente presentazione di una soluzione tanto semplice quanto radicale della questione operaia di allora. Ciò risulta tanto più vero, se vien considerato in relazione con la paurosa condizione di ingiustizia in cui giacevano le masse proletarie nelle Nazioni da poco industrializzate. Occorre qui sottolineare due cose: da una parte, la grande lucidità nel percepire, in tutta la sua crudezza, la reale condizione dei proletari, uomini, donne e bambini; dall'altra, la non minore chiarezza con cui si intuisce il male di una soluzione che, sotto l'apparenza di un'inversione delle posizioni di poveri e ricchi, andava in realtà a detrimento di quegli stessi che si riprometteva di aiutare. Il rimedio si sarebbe così rivelato peggiore del male. Individuando la natura del socialismo del suo tempo nella soppressione della proprietà privata, Leone XIII arrivava al nodo della questione" (n. 12), Giovanni Paolo II ricorda come "L'Enciclica ed il Magistero sociale, ad essa collegato, ebbero una molteplice influenza negli anni tra il XIX e il XX secolo. Tale influenza si riflette in numerose riforme introdotte nei settori della previdenza sociale, delle pensioni, delle assicurazioni contro le malattie, della prevenzione degli infortuni, nel quadro di un maggiore rispetto dei diritti dei lavoratori. [...] Se dunque, guardando al passato, c'è motivo di ringraziare Dio perché la grande Enciclica non è rimasta priva di risonanza nei cuori ed ha spinto ad una fattiva generosità, tuttavia bisogna riconoscere che l'annuncio profetico, in essa contenuto, non è stato compiutamente accolto dagli uomini di quel tempo, e proprio da ciò sono derivate assai gravi sciagure. [...] Proprio questo errore giunse alle estreme conseguenze nel tragico ciclo delle guerre che sconvolsero l'Europa ed il mondo tra il 1914 e il 1945. Furono guerre derivanti dal militarismo e dal nazionalismo esasperato e dalle forme di totalitarismo, ad essi collegate, e guerre derivanti dalla lotta di classe, guerre civili ed ideologiche. Senza la terribile carica di odio e di rancore, accumulata a causa delle tante ingiustizie sia a livello internazionale che a quello interno ai singoli Stati, non sarebbero state possibili guerre di tale ferocia, in cui furono investite le energie di grandi Nazioni, in cui non si esitò davanti alla violazione dei diritti umani più sacri, e fu pianificato ed eseguito lo sterminio di interi popoli e gruppi sociali. Ricordiamo qui, in particolare, il popolo ebreo, il cui terribile destino è divenuto simbolo dell'aberrazione cui puo’ giungere l'uomo, quando si volge contro Dio" (Centesimus annus n.15-17)


1 Luis Martinez Ferrer e Pier Luigi Guiducci, Fontes documenti fondamentali di Storia della Chiesa, EDIZIONI SAN PAOLO: Cinisello Balsamo 2005

2 L'enciclica Rerum Novarum, testo autentico e redazione preparatorie dai documenti originali, a cura di G. Antonazzi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1957, p.8

3 G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano 1957, p.66

4 Pio XI, lettera enciclica Quadragesimo anno, 15 maggio 1931, n.13

5 Giorgio Vecchio, La dottrina sociale della Chiesa profilo storico dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, In Dialogo: Milano 1992 pp. 28-34

6 Leone XIII, Rerum Novarum, n.16

7 Giovanni Manzone, La questione sociale nella eciclica Rerum Novarum, in Philippe Chenaux, Leone XIII: tra modernità e tradizione, Lateranum 2010

8 Leone XIII, Rerum Novarum, n. 3-4

9 Leone XIII, Rerum Novarum, n. 9-10

10 Leone XIII, Rerum Novarum, n. 14

11 Leone XIII, Rerum Novarum, n.34

12 Leone XIII, Rerum Novarum, n.27

13 Leone XIII, Rerum Novarum, n.32

14 Leone XIII, Rerum Novarum, n.34

15 Leone XIII, Rerum Novarum, n.14

16 Leone XIII, Rerum Novarum, n.29

17 Leone XIII, Rerum Novarum, n.37

18 F. Turati, Postilla, in Critica sociale, 31 Maggio 1891

19 Giorgio Vecchio, La dottrina sociale della Chiesa profilo storico dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, In Dialogo: Milano 1992