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Concilio di Nicea (325 d.C.)

Testo del Concilio

La storia del Concilio

Il primo concilio ecumenico della Chiesa. Il concilio di Nicea nasce per combattere l'eresia di Ario che subordinava il Figlio al Padre, negando la divinità del Figlio, ma questa eresia permise alla chiesa di realizzare il suo atto di fede, di iniziare a sviluppare quel "credo" che noi ancora oggi proclamiamo, venne utilizzato il simbolo apostolico già usato per il battesimo e furono fatte delle aggiunte.

La convocazione del concilio

Si ebbe anche la sensazione che la questione interessasse tutte le chiese, poiché queste formavano "un corpo solo": occorreva una decisione comune dei responsabili della Chiesa. Costantino - nonostante si trattasse di un problema di carattere teologico- pensò dapprima di soffocare la lotta, inviando una lettera ai due antagonisti, Alessandro e Ario; poi, d'accordo con papa Silvestro, comprese che la questione doveva essere trattata dal Concilio.

Intento dell'imperatore Costantino, il cui scopo era quello di garantirsi l'ordine e la governabilità dell'impero, era che il sinodo non solo si pronunciasse sulla dottrina del prete Ario, ma anche ricompaginasse la Chiesa, divenuta un'istituzione portante dell'impero romano. Da qui la necessità "di un grande e santo concilio", un concilio "ecumenico" che, nelle aspettative di Costantino, avrebbe dovuto eliminare anche gli altri motivi di crisi che turbavano la pace ecclesiale.

Al Concilio, convocato a Nicea in quanto città più accessibile ai vescovi occidentali e vicina alla sede imperiale di Nicomedia, parteciparono, secondo la tradizione, 318 padri (numero simbolico: 318 erano i servitori di Abramo di Gn 14, 14); ma per Eusebio di Cesarea sarebbero stati 250. Oltre ai vescovi parteciparono numerosi esponenti del clero (diaconi e presbiteri) e forse alcuni laici. Mancano gli atti sinodali. Da Eusebio si sa che la seduta inaugurale fu presieduta da Costantino e il medesimo avrebbe anche presieduto i dibattiti sul problema dottrinale. I posti d'onore furono riservati ai Legati della Sede Apostolica, Vito e Vincenzo.

I primi a prendere la parola furono i "lucianisti", simpatizanti di Ario: proposero una formula di fede che non conosciamo, ma che suscitò in aula una furente protesta. Intervenne allora Eusebio di Cesarea che propose il simbolo di fede tradizionalmente usato dalla sua Chiesa per ammettere al battesimo.

All'epoca non esisteva un simbolo ancora universalmente ammesso da tutte le chiese. In Occidente si era diffuso la formula, poi detta "Simbolo apostolico", costituita da una professione trinitaria, un ciclo cristologico e alcuni articoli sulla resurrezione finale e sulla Chiesa. Il simbolo di Cesarea non contiene invece queste ultime affermazioni e presenta delle sfumature nel ciclo cristologico. Mentre il simbolo romano o apostolico parla in termini diretti e storici (nacque; fu crocefisso; sotto Ponzio Pilato; sepolto), il simbolo di Cesarea impiega termini intenzionali che sottolineano l'aspetto propriamente teologico, con un tono antignostico (fatto carne; soffrì). La proposta fu approvata; ma la maggior parte dei Padri giudicò che occorreva ritoccarlo, aggiungendovi alcune precisazioni che non lasciassero agli ariani scappatoie. Dopo giorni di discussione, si giunse alla stesura definitiva e all'atto più solenne del concilio: l'approvazione della definizione di fede nella forma di un 'simbolo', un compendio delle verità professate dalla Chiesa.

Perduti gli atti del Concilio, del Simbolo di Nicea possediamo tre testimonianze, tre testi sostanzialmente identici (Eusebio di Cesarea, sant'Atanasio, Marcello di Ancira); si aggiunga che questo testo fu ripreso letteralmente da Leone Magno e dal III Concilio di Costantinopoli (680).

Leggendo sant'Atanasio, furono i vescovi a proporre, uno dopo l'altro, le nuove affermazioni da aggiungere al nocciolo originale, costituito dal simbolo della Chiesa di Cesarea. Ne scaturì una definizione, redatta in forma di professione di fede.

Ecco il testo del Simbolo di Nicea:

"Noi crediamo in un solo Dio, Padre Onnipotente / creatore di tutte le cose visibili e invisibili / E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, / unigenito del Padre, ossia della stessa sostanza del Padre / Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, / generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, secondo i Greci, consustanziale (homoousios), / mediante il quale tutto è stato fatto, ciò che è in cielo e ciò che è sulla terra / per noi uomini e per la nostra salvezza egli è disceso dal cielo, / si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto, / è risuscitato il terzo giorno / è salito al cielo e verrà a giudicare i vivi e i morti, / e nello Spirito Santo".

Al simbolo i padri aggiunsero, un'appendice di carattere anch'essa dogmatico, in cui sono colpite d'anatema le principali posizioni ariane:

"Per quelli che dicono "ci fu un tempo in cui non era" e "Prima di nascere, egli non era" e "Egli è stato creato dal nulla", o che dichiarano che il Figlio è un'altra sostanza (hypostasis) o di un'altra essenza (ousia), o che egli è creato o sottomesso al cambiamento o all'alterazione, la Chiesa cattolica e apostolica li colpisce di anatema".

La professione di fede nicena è direttamente trinitaria: questo lo schema:

Credo: in un solo Dio Padre; in un solo Signore Gesù Cristo; nello Spirito Santo. Dove il nome Dio (in ebraico Jahvé) significa nell'Antico Testamento la prima Persona, la sola che si sia rivelata con tutta chiarezza; mentre le altre due restarono in penombra. Anche nel Nuovo Testamento quando si dice Dio si parla espressamente del Padre e non delle tre persone divine; questo è il linguaggio di Gesù Cristo ("che conoscano te, unico vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo", Gv 17, 1-3); questo il linguaggio degli apostoli e di S. Paolo: ("da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo", Rm 1, 7; "sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo", 2 Cor 1, 3; "Per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose", 1 Cor 8,6). Ne consegue che quando il simbolo di Nicea, con quello di Cesarea, confessa il Dio unico, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, non fa che accogliere la rivelazione monoteista dell'Antico Testamento, quella di Jahvé unico, opposta alla molteplicità dei falsi dèi. In tale contesto "Dio unico" non significa direttamente e formalmente la "sostanza" divina, ma il Dio-persona, in concreto la persona del Padre, che è colui che si manifesta nell'Antico Testamento.

Affermato che Dio è soltanto uno, un'unica sostanza, incapace di moltiplicarsi e di dividersi, i Padri di Nicea passano al successivo articolo di fede: il nostro unico Signore Gesù Cristo è il Figlio di Dio, l'unigenito generato dal Padre. L'essenza del Figlio non differisce cioè da quella del Padre, è divina come quella del Padre. Questi articoli della Fede sono rivelati nel Nuovo Testamento e i più antichi simboli li hanno accolti. E questo sarebbe potuto bastare per confutare l'arianesimo. Ma poiché Ario diceva che la natura del Padre è incomunicabile e riteneva assurdo che nel Padre ci sia una vera paternità i Padri di Nicea decisero di aggiungere, come commento l'inciso "ossia della sostanza (ousia) del Padre", sottolineando così l'idea della generazione strettamente naturale, che è l'origine del Figlio. La generazione del Figlio non è il risultato esterno di un intervento della volontà del Padre, come nel caso dei figli adottivi, che sono delle creature, ma comunicazione interna dell'essenza stessa per opera di colui che genera. Per questo il generato differisce essenzialmente da un essere fatto per generazione o "fabbricazione". Per affermare questo il magistero della Chiesa si è servito di "ousia" -non un termine biblico, ma filosofico- che corrisponde al termine latino essentia o substantia. Questa parola però allora la si confondeva con la parola greca hypostasis che i latini tradussero con substantia o anche con persona. Merito dei padri della Cappadocia l'aver determinato chiaramente il significato di ousia e di hypostasis: parlando di Dio designarono con ousia soltanto la sua essenza, unica e comune al Padre e al Figlio, mentre hypostasis significava sempre la persona. Da allora entrò ufficialmente nel magistero della Chiesa l'espressione che in Dio c'è una sola ousia e tre hypostasis". Ciò premesso, quando i Padri di Nicea aggiunsero al simbolo che il Figlio è generato dalla ousia del Padre, non volevano parlare dell'hipostasis, o persona del Padre, ma dell'essenza o sostanza del Padre. Cioè il Figlio proviene dall'essenza, come a dire dalle stesse viscere del Padre e ciò a differenza delle creature che sono soltanto un prodotto esterno di un atto della sua volontà onnipotente.

Se il Figlio proviene dalla stessa essenza del Padre, ne consegue che la sua essenza non differisce da quella del Padre; da qui la successiva espressione: "Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero". Le prime due proposizioni si ritrovano nella Scrittura (Gv 1, 1. 4-9; 5, 20; 8, 12; 1 Gv 1, 5, Gc 1, 17); mentre la terza espressione, già prima di Nicea, era patrimonio della teologia in oriente e in occidente. Particolarmente felice la metafora del raggio di sole per illustrare la generazione del Figlio; per far capire la processione di un essere spirituale che nasce, senza che colui che costituisce la sua origine perda niente.

Definito che la divinità del Figlio è come quella del Padre, i Padri Niceni passano a demolire le altre asserzioni dogmatiche dell'arianesimo: da qui la proposizione "generato, non fatto": se viene dal Padre come vero Figlio per natura, non è creatura, mentre per gli ariani era "creazione", "opera" del Padre, fatta da lui. Nervo degli ariani era il testo di Proverbi 8, 22 "Il Signore mi ha creata -è la Sapienza che parla- come primizia delle sue vie": sant'Atanasio e san Basilio fanno notare che il passo si riferisce alla Sapienza incarnata, il Figlio fatto uomo che è creato in ragione della sua umanità. Quindi si servono del prologo di san Giovanni per dimostare l'eternità del Figlio di Dio "all'inizio era il Verbo; egli era in Dio": il che è come negare ogni distanza e intervallo fra il Padre e il Figlio. "Tutto era stato fatto dal Verbo": dunque il Verbo non fa parte delle cose create. Mettendo, come fa Ario, un intervallo fra il Padre e il Figlio si introduce fra loro qualcosa, un qualcosa che non sarebbe stato creato dal Verbo.

Punto nevralgico della discussione dei Padri fu il termine homoousios, consustanziale al Padre, un termine di origine gnostica, dal III secolo entrato nel vocabolario della scuola cristiana di Alessandria e quindi scelto dai Padri di Nicea per indicare una rassomiglianza perfetta fino ad arrivare all'identità: homôs significa ugualmente, ousia equivale a essenza, sostanza e il composto significa: quelli che hanno la stessa essenza. Il termine implica dunque, grazie alla perfezione della natura divina, l'individualità del Padre e del Figlio, unita nella stessa ed unica sostanza; per cui nell'anatema dell'appendice rigettarono l'affermazione che il Figlio "è di una essenza diversa da quella del Padre". Gli ariani, avevano annesso al termine homoousios un senso materiale, da qui il loro rifiuto e la proposta di sostituirlo con il termine homoiousios, che significa simile; ma i Padri di Nicea rigettarono il termine come insufficiente, a meno che non fosse completato, per esempio "homoiousios in tutto". Il termine consustanziale (homoousios) indica che il Figlio di Dio condivide e partecipa dello stesso essere del Padre. Eusebio riferisce che Costantino spiegò questo termine nel senso che "il Figlio di Dio non ha alcuna somiglianza con le creature che sono state fatte, e invece è simile in tutto al solo Padre che lo ha generato e non deriva da altra ipostasi o sostanza, ma dal Padre". Strenuo difensore della verità che il Figlio è consustanziale col Padre fu Atanasio, diacono di Alessandria (+373), destinato a diventare l'avversario principale degli ariani.

Il Concilio di Nicea, definita contro Ario la divinità di Cristo, dedicò un poco di spazio anche ad altri problemi.

In primo luogo alla data della pasqua che aveva dato luogo a tre usanze: i cicli di Roma e di Alessandria, autonomi rispetto al computo ebraico, ma distinti fra loro e la prassi, essenzialmente antiochena che si richamava ancora alla celebrazione ebraica, sia pure non più nella forma quartodecimana come nel conflitto pasquale del II secolo. Il Concilio fissò la data della pasqua, da calcolare secondo l'uso occidentale, e non secondo l'uso degli ebrei, per la domenica dopo il 14 di nisam. Il concilio trattò anche i residui dello scisma sorto ad Antiochia, nel 268 e dello scisma sorto in Egitto, al tempo del vescovo Melezio di Licopoli, durante l'ultima persecuzione (303-312). In genere per i seguaci di vecchi scismi, come quelli di Novaziano e di Paolo di Samosata (adozionismo), fu seguita la via della clemenza, così come per i lapsi.

Furono infine fissate norme -la tradizione ci ha conservato 20 canoni- relative alle strutture del governo ecclesiale.

Nei cann. 4 e 5 emergono la figura del vescovo metropolita e la struttura più ampia dell'eparchia, i cui confini dovevano coincidere con le circoscri­zioni civili rappresentate dalle province. Il can. 4 stabilisce che la con­sa­crazione di un nuovo vescovo spetta di per sé a tutti i vescovi della provincia, ma in caso di impossibilità verrà fatta da una rappresentanza di tre, col permesso degli assenti. Ad ogni modo deve venir confermata dal metropolita, come attesta il can. 6 che non considera valida l'elezione "priva del consenso del metropolita". Si esclude così che un vescovo possa consacrarne un altro. Il can. 5 concerne la convocazione -s'intende da parte del metropolita- del sinodo provinciale per almeno due ses­sioni annuali, prima della quaresima e in autunno: al sinodo spettava, in particolare, l'esame delle scomuniche inflitte dal singolo vescovo. Fungevano così da istanza di appello per le sentenze portate dagli ordi­nari. Il can. 6 ribadisce la struttura metropolitana, mentre non vengono menzionate le chiese patriarcali; facendo riferimento a un diritto consuetudinario, conferma i privilegi speciali delle chiese di fondazione pe­trina, cioè di Roma; di Antiochia; di Alessandria che aveva giurisdizione superprovinciale (assimilabile a quella romana), su Egitto, Libia e Pentapoli. Il can. 7 riconosce alla Città Santa, ancorché suffraga­nea della sede metropolita di Cesarea, uno speciale privilegio di onore: è la pre­messa per la futura creazione del quarto patriarcato orientale, il cui ri­conoscimento sarà ottenuto nel concilio di Calcedonia.

Altri canoni riguardano il clero: i cann. 16-17 proibiscono la mobilità del clero da una diocesi all'altra e di ordinare un ecclesiastico appartenente ad altra diocesi, senza disporre del con­senso del proprio vescovo. Il can. 1 regolamenta la questione degli eu­nuchi e il sacerdozio. Il can. 3 vieta la coabitazione del clero con donne, a meno che non si tratti di parenti stretti o di persone sopra ogni sospetto. Il concilio non proibisce che degli sposati accedano al sacerdozio, ma proibisce il matrimonio dopo l'ordinazione e mette fine al "matrimonio spirituale", un fenomeno dell'ascetismo cristiano pri­mitivo che prevedeva la coabitazione di un chierico, o di un asceta celibe con una vergine (virgines subintroductae). Grande importanza viene dedicata alla scelta dei candidati. Il can. 2 proibisce che si proceda troppo rapidamente dal battesimo al conferimento degli ordini sacri e i cann. 9-10 toccano il problema dei diversi impedimenti. Quanto alla condotta, il can. 17 vieta l'esercizio dell'usura da parte del clero, pena la deposizione.

Ben quattro i canoni concernenti la disciplina penitenziale: toccano il problema dei lapsi e prescrivono un tratta­mento abbastanza indulgente (cann. 11-14). Il can. 11, per i fedeli che avevano ceduto senza essere spinti da necessità, dispone: 3 anni di penitenza come auditores, 7 fra i prostrati e 2 fra gli orantes, senza poter partecipare all'oblazione. Il can. 12 concerne gli ex soldati e prescrive loro 3 anni di penitenza fra gli auditores e 10 fra i prostrati. Il can. 13 prescrive che non si rifiuti la comunione ai moribondi, beneficio che invece aveva negato qualche anno prima il concilio di Elvira (303 ?).

I canoni 18 e 20 riguardano le prescrizioni liturgiche: certi diaconi, in alcune regioni, commettevano l'abuso di dare l'Eucarestia ai preti o di riceverla prima dei vescovi, un abuso in quanto i diaconi, come servitori dei vescovi, possiedono una dignità inferiore a quella dei preti. Il canone 18 minaccia di sospendere quei diaconi che non rendevano ai sacerdoti l'onore e l'obbedienza dovuta. Il can. 20 riprende invece quanti le domeniche e i giorni che vanno da pasqua a Pentecoste, restano inginocchiati durante le preghiere liturgiche -i genuflectentes erano il secondo grado dei catecumeni- invitandoli ad osservare fedelmente la regola di pregare in piedi.

Riferisce Eusebio che le decisioni, prese in comune, furono anche ratificate per iscritto e controfirmate da ognuno (Vita, 3, 16). Quanti si rifiutarono furono costretti all'esilio: è quanto accadde ad Ario, a Eusebio di Nicomedia, a Teognide di Nicea, e a Mari di Calcedonia; mentre si ostinarono fino alla fine e quindi sottoscrissero gli atti, Teone di Marmarica e Secondo di Tolemaide. Dopo di che Costantino conferì ai decreti del concilio validità di legge dello Stato.

A differenza dei precedenti concili, che avevano legiferato in ambito locale, ora inizia un nuovo tipo di normativa estensibile all'oikoumene. Nicea è un concilio ecumenico, in quanto espressione della comunità visibile della Chiesa tutta, nel duplice significato dell'universalismo dell'Impero Romano e dell'universalità della Chiesa, ancorché dei partecipanti appena cinque fossero occidentali.