Ario (256-336)
Tra gli allievi di Luciano, uno dei fondatori della Chiesa antiochena, c'è Ario (+ 336), oriundo della Libia il quale era particolarmente versato allo studio della Scrittura, poco a quello delle correnti filosofiche.
Ario rientrò ad Alessandria all'inizio del IV secolo, al tempo del vescovo Pietro. Questi nel 303, durante la persecuzione di Diocleziano, era fuggito e il suo posto fu occupato da Melezio, vescovo di Licapoli, già condannato da Pietro per aver sacrificato agli idoli. Morto il vescovo Pietro, gli successe Alessandro e con lui Ario, intorno al 318 ebbe il primo contrasto durante una semplice riunione di sacerdoti di Alessandria in cui il vescovo Alessandro chiese ciò che si pensava di un passo della Legge, un punto di poco peso e importanza. Ario, che era parroco della chiesa di Baucalis, sul porto di Alessandria, ebbe l'imprudenza di comunicare una sua riflessione che subito divise il popolo in due parti, facendo scatenare una grave discordia. Tutti ammettevano la divinità del Padre; non avevano però la stessa certezza per la divinità reale del Figlio. Per Ario era importante accentuare l'autorità di Dio Padre, per cui negò la divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre. Ario accusò il vescovo Alessandro di aver proferito espressioni erronee sulla filiazione del Verbo. Aveva detto che nella Trinità c'era un'unità, o monade.Ario riteneva che quella espressione fosse sabelliana, i sabelliani vedevano un unico Dio in tre modalità che sono Padre, Figlio e Spirito Santo, ma un unica persona in queste tre modalità. E proseguì: se il Padre ha generato il Figlio, questi dunque ha dovuto iniziare ad esistere; quindi c'è stato un momento in cui non esisteva.
Invitato dal vescovo a ritrattare, Ario invece rifiutò di ammettere la filiazione divina. E poiché continuava a diffondere questa dottrina eretica, Alessandro decise di convocare un sinodo dei vescovi di Egitto e di Libia. E questi vescovi si opposero all'errore di Ario, che faceva il Verbo posteriore al Padre, l'affermazione che il Figlio è homoousios, cioè consustanziale e coeterno al Padre. Ario fu scomunicato e, con l'aiuto del braccio secolare, cacciato dalla città per cui si rifugiò in Palestina, a Cesarea, accolto da Eusebio; da lì passò a Nicomedia. Nel frattempo il vescovo Alessandro, secondo l'usanza, inviò lettere sinodali a tutti i vescovi, pregandoli di non ammettere Ario; il che obbligava anche i vescovi a rispondere con lettere di comunione. Ce ne sono pervenute due. Una da Nicomedia, dove gli ariani di Alessandria, esuli e al seguito di Ario, scrivono ad Alessandro, approvando la dottrina ariana e condannando Alessandro. Mentre un sinodo dei vescovi della Palestina, tenutosi ad Antiochia, propose una formula di fede antiariana dove non fu usato il termine homoousios.
Punto di partenza dell'arianesimo sono due falsi principi:
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L'Unico non generato (agénnètos) è Dio Padre: egli è anteriore
al Verbo, diversamente ci sarebbero due non generati, senza principio. Dunque ci
fu un momento in cui il Verbo non esisteva.
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Una generazione naturale del Verbo non si comprende senza che
il Padre non perda qualcosa della sua essenza. La generazione comporta la
comunicazione di una realtà che appartiene alla natura; da qui Ario deduce che
la filiazione del Figlio non è naturale, ma adottiva (come la filiazione divina
degli uomini).
Da questi due principi derivano come conclusioni che:
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Il Verbo, chiamato Figlio di Dio, è una creatura venuta fuori
dal niente; non è eterno come il Padre, ma un essere creato, voluto come
strumento per la creazione di tutti gli esseri;
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In quanto creatura del Padre, il Figlio non proviene
dall'essenza di Dio, e quindi non condivide questa essenza. E' venuto fuori dal
niente per volontà del Padre.
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Poiché creatura diversa dalla sostanza divina, il Figlio di
Dio è soggetto al cambiamento e alla sofferenza;
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Ma il Figlio non è una creatura come le altre: è un essere
eccezionale, il capolavoro prodotto da Dio, perfettamente santo e senza peccato;
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Il Verbo avrebbe così assunto solo un corpo mortale, ma non
un'anima umana.
Base scritturale, Col. 1, 15; eb 3, 2; At 2, 36, ma soprattutto Proverbi 8, 22, che nel testo greco recita: "Il Signore -è la Sapienza che parla- mi ha creata come primizia delle sue vie".
Così per sostenere un rigido monoteismo Ario aveva finito per subordinare al Padre il Figlio e lo Spirito. Egli, in Gesù, non vedeva Dio, ma una creatura dotata di forze divine: per lui la seconda persona della Santissima Trinità non era consustanziale al Padre, quindi per sua essenza non è Dio, ma una divinità di ordine secondario, una super creatura simile al demiurgo degli gnostici. Egli detestava l'appellativo consustanziale (Homoousios). Questa dottrina rapidamente si diffuse lungo il bacino mediterraneo, turbando non poco la pace religiosa.
Diversamente il vescovo Alessandro (+ 328), poggiandosi sui dogmi apostolici della fede professava che:
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Il Figlio di Dio è coeterno al Padre; non è un essere creato
dal niente;
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procede dal Padre per generazione naturale, nel pieno
significato della parola.
Base scritturale, il Prologo di san Giovanni, dove si parla del Verbo che era "all'inizio presso il Padre e per mezzo del quale tutto è stato creato". Alessandro distingue la generazione divina da quella umana: solo in questa c'è alterazione, perdita nel generante di una parte della sua sostanza. In quanto Figlio, per natura il Verbo è perfettamente uguale al Padre: caratteristica del Padre è di essere non-generato, per questo si può dire che è più grande del Figlio. Per il resto nessuna differenza. Padre e Figlio costituiscono due ipostasi o persone. E il Figlio di Dio, Dio egli stesso, non è soggetto al cambiamento.
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in sintesi
ARIO:
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ALESSANDRO:
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L'errore di Ario fu un errore trinitario. Così contro Ario insorse tutto il clero di Alessandria, guidato dal vescovo Alessandro e dal diacono Atanasio che predicò la vera divinità di Cristo, mentre il vescovo Alessandro escluse Ario dalla Chiesa. Da parte sua Ario ebbe come seguaci, Eusebio di Cesarea, lo storico ed Eusebio vescovo di Nicomedia, appartenente alla scuola teologica di Antiochia.
La convocazione del concilio
Si ebbe anche la sensazione che la questione interessasse tutte le chiese, poiché queste formavano "un corpo solo": occorreva una decisione comune dei responsabili della Chiesa. Costantino - nonostante si trattasse di un problema di carattere teologico- pensò dapprima di soffocare la lotta, inviando una lettera ai due antagonisti, Alessandro e Ario; poi, d'accordo con papa Silvestro, comprese che la questione doveva essere trattata dal Concilio.
Intento dell'imperatore Costantino, il cui scopo era quello di garantirsi l'ordine e la governabilità dell'impero, era che il sinodo non solo si pronunciasse sulla dottrina del prete Ario, ma anche ricompaginasse la Chiesa, divenuta un'istituzione portante dell'impero romano. Da qui la necessità "di un grande e santo concilio", un concilio "ecumenico" che, nelle aspettative di Costantino, avrebbe dovuto eliminare anche gli altri motivi di crisi che turbavano la pace ecclesiale.
Al Concilio, convocato a Nicea in quanto città più accessibile ai vescovi occidentali e vicina alla sede imperiale di Nicomedia, parteciparono, secondo la tradizione, 318 padri (numero simbolico: 318 erano i servitori di Abramo di Gn 14, 14); ma per Eusebio di Cesarea sarebbero stati 250. Oltre ai vescovi parteciparono numerosi esponenti del clero (diaconi e presbiteri) e forse alcuni laici. Mancano gli atti sinodali. Da Eusebio si sa che la seduta inaugurale fu presieduta da Costantino e il medesimo avrebbe anche presieduto i dibattiti sul problema dottrinale. I posti d'onore furono riservati ai Legati della Sede Apostolica, Vito e Vincenzo.
I primi a prendere la parola furono i "lucianisti", simpatizanti di Ario: proposero una formula di fede che non conosciamo, ma che suscitò in aula una furente protesta. Intervenne allora Eusebio di Cesarea che propose il simbolo di fede tradizionalmente usato dalla sua Chiesa per ammettere al battesimo.
All'epoca non esisteva un simbolo ancora universalmente ammesso da tutte le chiese. In Occidente si era diffuso la formula, poi detta "Simbolo apostolico", costituita da una professione trinitaria, un ciclo cristologico e alcuni articoli sulla resurrezione finale e sulla Chiesa. Il simbolo di Cesarea non contiene invece queste ultime affermazioni e presenta delle sfumature nel ciclo cristologico. Mentre il simbolo romano o apostolico parla in termini diretti e storici (nacque; fu crocefisso; sotto Ponzio Pilato; sepolto), il simbolo di Cesarea impiega termini intenzionali che sottolineano l'aspetto propriamente teologico, con un tono antignostico (fatto carne; soffrì). La proposta fu approvata; ma la maggior parte dei Padri giudicò che occorreva ritoccarlo, aggiungendovi alcune precisazioni che non lasciassero agli ariani scappatoie. Dopo giorni di discussione, si giunse alla stesura definitiva e all'atto più solenne del concilio: l'approvazione della definizione di fede nella forma di un 'simbolo', un compendio delle verità professate dalla Chiesa.
Perduti gli atti del Concilio, del Simbolo di Nicea possediamo tre testimonianze, tre testi sostanzialmente identici (Eusebio di Cesarea, sant'Atanasio, Marcello di Ancira); si aggiunga che questo testo fu ripreso letteralmente da Leone Magno e dal III Concilio di Costantinopoli (680).
Leggendo sant'Atanasio, furono i vescovi a proporre, uno dopo l'altro, le nuove affermazioni da aggiungere al nocciolo originale, costituito dal simbolo della Chiesa di Cesarea. Ne scaturì una definizione, redatta in forma di professione di fede.
Ecco il testo del Simbolo di Nicea:
"Noi crediamo in un solo Dio, Padre Onnipotente / creatore di tutte le cose visibili e invisibili / E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, / unigenito del Padre, ossia della stessa sostanza del Padre / Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, / generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, secondo i Greci, consustanziale (homoousios), / mediante il quale tutto è stato fatto, ciò che è in cielo e ciò che è sulla terra / per noi uomini e per la nostra salvezza egli è disceso dal cielo, / si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto, / è risuscitato il terzo giorno / è salito al cielo e verrà a giudicare i vivi e i morti, / e nello Spirito Santo".
Al simbolo i padri aggiunsero, un'appendice di carattere anch'essa dogmatico, in cui sono colpite d'anatema le principali posizioni ariane:
"Per quelli che dicono "ci fu un tempo in cui non era" e "Prima di nascere, egli non era" e "Egli è stato creato dal nulla", o che dichiarano che il Figlio è un'altra sostanza (hypostasis) o di un'altra essenza (ousia), o che egli è creato o sottomesso al cambiamento o all'alterazione, la Chiesa cattolica e apostolica li colpisce di anatema".
La professione di fede nicena è direttamente trinitaria: questo lo schema:
Credo: in un solo Dio Padre; in un solo Signore Gesù Cristo; nello Spirito Santo. Dove il nome Dio (in ebraico Jahvé) significa nell'Antico Testamento la prima Persona, la sola che si sia rivelata con tutta chiarezza; mentre le altre due restarono in penombra. Anche nel Nuovo Testamento quando si dice Dio si parla espressamente del Padre e non delle tre persone divine; questo è il linguaggio di Gesù Cristo ("che conoscano te, unico vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo", Gv 17, 1-3); questo il linguaggio degli apostoli e di S. Paolo: ("da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo", Rm 1, 7; "sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo", 2 Cor 1, 3; "Per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose", 1 Cor 8,6). Ne consegue che quando il simbolo di Nicea, con quello di Cesarea, confessa il Dio unico, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, non fa che accogliere la rivelazione monoteista dell'Antico Testamento, quella di Jahvé unico, opposta alla molteplicità dei falsi dèi. In tale contesto "Dio unico" non significa direttamente e formalmente la "sostanza" divina, ma il Dio-persona, in concreto la persona del Padre, che è colui che si manifesta nell'Antico Testamento.
Affermato che Dio è soltanto uno, un'unica sostanza, incapace di moltiplicarsi e di dividersi, i Padri di Nicea passano al successivo articolo di fede: il nostro unico Signore Gesù Cristo è il Figlio di Dio, l'unigenito generato dal Padre. L'essenza del Figlio non differisce cioè da quella del Padre, è divina come quella del Padre. Questi articoli della Fede sono rivelati nel Nuovo Testamento e i più antichi simboli li hanno accolti. E questo sarebbe potuto bastare per confutare l'arianesimo. Ma poiché Ario diceva che la natura del Padre è incomunicabile e riteneva assurdo che nel Padre ci sia una vera paternità i Padri di Nicea decisero di aggiungere, come commento l'inciso "ossia della sostanza (ousia) del Padre", sottolineando così l'idea della generazione strettamente naturale, che è l'origine del Figlio. La generazione del Figlio non è il risultato esterno di un intervento della volontà del Padre, come nel caso dei figli adottivi, che sono delle creature, ma comunicazione interna dell'essenza stessa per opera di colui che genera. Per questo il generato differisce essenzialmente da un essere fatto per generazione o "fabbricazione". Per affermare questo il magistero della Chiesa si è servito di "ousia" -non un termine biblico, ma filosofico- che corrisponde al termine latino essentia o substantia. Questa parola però allora la si confondeva con la parola greca hypostasis che i latini tradussero con substantia o anche con persona. Merito dei padri della Cappadocia l'aver determinato chiaramente il significato di ousia e di hypostasis: parlando di Dio designarono con ousia soltanto la sua essenza, unica e comune al Padre e al Figlio, mentre hypostasis significava sempre la persona. Da allora entrò ufficialmente nel magistero della Chiesa l'espressione che in Dio c'è una sola ousia e tre hypostasis". Ciò premesso, quando i Padri di Nicea aggiunsero al simbolo che il Figlio è generato dalla ousia del Padre, non volevano parlare dell'hipostasis, o persona del Padre, ma dell'essenza o sostanza del Padre. Cioè il Figlio proviene dall'essenza, come a dire dalle stesse viscere del Padre e ciò a differenza delle creature che sono soltanto un prodotto esterno di un atto della sua volontà onnipotente.
Se il Figlio proviene dalla stessa essenza del Padre, ne consegue che la sua essenza non differisce da quella del Padre; da qui la successiva espressione: "Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero". Le prime due proposizioni si ritrovano nella Scrittura (Gv 1, 1. 4-9; 5, 20; 8, 12; 1 Gv 1, 5, Gc 1, 17); mentre la terza espressione, già prima di Nicea, era patrimonio della teologia in oriente e in occidente. Particolarmente felice la metafora del raggio di sole per illustrare la generazione del Figlio; per far capire la processione di un essere spirituale che nasce, senza che colui che costituisce la sua origine perda niente.
Definito che la divinità del Figlio è come quella del Padre, i Padri Niceni passano a demolire le altre asserzioni dogmatiche dell'arianesimo: da qui la proposizione "generato, non fatto": se viene dal Padre come vero Figlio per natura, non è creatura, mentre per gli ariani era "creazione", "opera" del Padre, fatta da lui. Nervo degli ariani era il testo di Proverbi 8, 22 "Il Signore mi ha creata -è la Sapienza che parla- come primizia delle sue vie": sant'Atanasio e san Basilio fanno notare che il passo si riferisce alla Sapienza incarnata, il Figlio fatto uomo che è creato in ragione della sua umanità. Quindi si servono del prologo di san Giovanni per dimostare l'eternità del Figlio di Dio "all'inizio era il Verbo; egli era in Dio": il che è come negare ogni distanza e intervallo fra il Padre e il Figlio. "Tutto era stato fatto dal Verbo": dunque il Verbo non fa parte delle cose create. Mettendo, come fa Ario, un intervallo fra il Padre e il Figlio si introduce fra loro qualcosa, un qualcosa che non sarebbe stato creato dal Verbo.
Punto nevralgico della discussione dei Padri fu il termine homoousios, consustanziale al Padre, un termine di origine gnostica, dal III secolo entrato nel vocabolario della scuola cristiana di Alessandria e quindi scelto dai Padri di Nicea per indicare una rassomiglianza perfetta fino ad arrivare all'identità: homôs significa ugualmente, ousia equivale a essenza, sostanza e il composto significa: quelli che hanno la stessa essenza. Il termine implica dunque, grazie alla perfezione della natura divina, l'individualità del Padre e del Figlio, unita nella stessa ed unica sostanza; per cui nell'anatema dell'appendice rigettarono l'affermazione che il Figlio "è di una essenza diversa da quella del Padre". Gli ariani, avevano annesso al termine homoousios un senso materiale, da qui il loro rifiuto e la proposta di sostituirlo con il termine homoiousios, che significa simile; ma i Padri di Nicea rigettarono il termine come insufficiente, a meno che non fosse completato, per esempio "homoiousios in tutto". Il termine consustanziale (homoousios) indica che il Figlio di Dio condivide e partecipa dello stesso essere del Padre. Eusebio riferisce che Costantino spiegò questo termine nel senso che "il Figlio di Dio non ha alcuna somiglianza con le creature che sono state fatte, e invece è simile in tutto al solo Padre che lo ha generato e non deriva da altra ipostasi o sostanza, ma dal Padre". Strenuo difensore della verità che il Figlio è consustanziale col Padre fu Atanasio, diacono di Alessandria (+373), destinato a diventare l'avversario principale degli ariani.