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Lo Stato Pontificio

Il Patrimonium S. Petri cresce sino a divenire sotto Gregorio Magno di notevole entità


Le successive invasioni germaniche (che travolsero l'Europa occi­dentale), slave (che si inserirono nei Balcani), arabe (che atta­nagliarono l'Occidente), causarono il crollo definitivo dell'Impero romano d'Occidente, approfondirono sem­pre più la separazione tra Oriente e Occidente e crearono i presupposti per una nuova so­cietà e civiltà.

Molteplici le ragioni di dissidio fra il governo di Bisanzio e i suoi sudditi ita­liani: erano di natura politica, fiscale e soprattutto religiosa. In Oriente l'iconocla­stia se -dal punto di vista religioso- si riallaccia alla polemica cristologica del mo­nofisismo, del monoer­getismo del monote­lismo; dal punto di vista politico, per Leone III, della dina­stia Isaurica (717), aveva significato un'accondiscenza verso tutto l'Oriente ebraico e islamico: con l'iconoclastia l'impe­ratore aveva inteso togliere di mano agli arabi un efficace strumento di propa­ganda e di conquista. In altre pa­role l'iconoclastia avrebbe dovuto significare la pacificazione per un impero per­petuamente diviso. Ma quando Leone III volle applicare la sua politica iconocla­sta anche al­l'Italia si aprì fra Bisanzio e gli Italici, stretti attorno al papa, la fase cru­ciale.

Di questo dissidio cercò di approfittare Liutprando (712-744), re dei Longobardi, che avrebbe voluto unificare i territori italiani sotto il suo scettro. Egli era in buoni rapporti con i Franchi in quanto aveva adottato con la cerimonia del taglio dei capelli, Pipino, figlio di Carlo Martello e i Franchi ritenevano i Longobardi un baluardo contro le scorrerie dei Saraceni. Si aggiunga che Liutprando era un re cattolico, un’autorità legittimata da Dio il quale aveva rotto con i passato ariano, modificando nel 713 l’editto di Rotari con leggi nelle quali si qualifica come principe cristiano e cattolico.

Ma se gli Italiani erano stanchi dell'im­peratore d'Oriente, ancor più temevano la do­minazione di un re barbaro. A difendere gli Italici dalle sopraffazioni del governo di Bisanzio e dai pericoli della con­quista longobarda intervenne allora il papato, universalmente con­siderato -sin dal tempo di Leone Magno- come il naturale di­fensore degli Italici. Fu papa Gregorio III (731-741) a rivolgersi ai Franchi: lo fece per difendere gli interessi degli italici, ma anche i propri interessi, quelli del cosiddetto Patrimonium S. Petri, cioè il vasto patrimonio fondiario che la Chiesa possedeva in Italia e nelle isole adiacenti.

Le proprietà della Chiesa romana

La proprietà della Chiesa Romana, già considerevole al tempo delle ultime persecuzioni, fu favorita dalle leggi imperiali e accre­sciuta per la devozione a s. Pietro. Anche i re barbari continua­rono a proteg­gere questa proprietà che si estendeva pure fuori d'I­talia e che prese il nome di patrimonium s. Petri, a somi­glianza del patrimonium principis (le proprietà dell'imperatore). Al tempo di Gregorio Magno, il patri­monio raggiunse la sua massima esten­sione. Fonte pri­maria di infor­mazione è l'epistolario dello stesso pontefice.

L'unità di misura era costituito dal fundus (podere); più fondi, ge­stiti in­sieme, costituivano una massa. Fondi e masse prendevano il nome in genere dal­l'antico proprietario. Più masse costituivano un pa­trimonium, che prendeva il nome dalla provincia dell’impero romano in cui si trova­vano.

I patrimoni erano così divisi. Nell'Italia meridio­nale, sei:

  1. Patrimonium Siciliae il più considerevole, suddiviso da s. Gregorio in Panormitanum e Siracusanum;
  2. Lucaniae et Bruttiorum (Lucania e Calabria);
  3. Calabritanum (penisola salen­tina);
  4. Apulum;
  5. Sanniticum;
  6. Campaniae.

Nell'Italia cen­trale, sei:

  1. Urbanum (beni immobi­liari entro Roma);
  2. Tusciae, suddiviso in Tuscia e Tuscia su­burbana o romana;
  3. Sabinum et Carseolanum (tra Tivoli e Carsule, nei pressi di Terni);
  4. Labicanum (Palestrina e Anagni);
  5. Appiae (lungo la via Appia e Ostiense);
  6. Piceni. Nell'Italia settentrionale, tre:
  7. Ravennate et Histrianum;
  8. Liguriae;
  9. Alpium Cottiarum (tra Alpi Marittime e Appennino tosco-emi­liano).

Altri pa­trimoni:

  1. Sardiniae;
  2. Corsicarum;
  3. Dalmatiarum;
  4. Illyricarum;
  5. Gallicarum;
  6. Germanicarum e in Africa nella re­gione di Ippona.

Nei patrimoni, il papa esercitava l'autorità di un grande pro­prieta­rio, ma non ne aveva la sovranità.

A capo di ogni patrimonio c'era un rector che papa Gregorio volle fosse sempre un chierico di Roma, non un laico. Nominato dal papa, prestava giuramento sulla tomba di s. Pietro, promettendo di servire per il ben della Chiesa e dei poveri. Sotto il rector c'erano altri funzionari che l'aiuta­vano (defensores, actiona­rii); nei fondi vivevano i conducto­res (fittavoli superiori) e la massa dei fittavoli minori e dei la­voratori della terra, chiamati coloni, rustici ecclesiae. A coltivare i fondi erano i coloni che godevano della libertà personale, ma con le loro famiglie erano legati alla terra che coltivavano. I fundi e le masse venivano dati in affitto e gli affittuari erano tenuti alla mi­glioria delle terre e a un canone annuo; poi si cominciò a conce­dere in enfiteusi, contratto favorevole ai fattavoli, ma poco remu­nera­tivo per la proprietà ecclesiatica.

Dopo papa Gregorio Magno (sec. VII) i patrimoni lontani da Roma iniziarono a scomparire, perché conquistati dai bar­bari, o confiscati dagli imperatori d'Oriente per rappresaglia con­tro i papi; mentre i patrimoni intorno a Roma si allargarono con il diminuire dell’autorità politica bizantina. E, specie nell' VIII se­colo, per compensarsi delle perdite, dovute anche ai contratti enfiteu­tici, i papi or­ganizzarono, attorno a Roma, le domus cultae: larghe zone di terreno, coltivate di­ret­tamente da salariati che, all'occor­renza, per la difesa dei raccolti, si trasforma­vano in una milizia armata, detta "exercitus s. Petri'.

Le notevoli entrate di queste grandi proprietà permisero ai papi di provve­dere, oltre che al mantenimento della corte pontifi­cia, anche alla città di Roma e ai suoi edifici sacri. Il che favorì, tra l'altro, il pellegri­naggio da tutto l'occidente cri­stiano, aumentato dopo che la conquista araba della Palestina aveva reso difficile l'accesso alla Terra Santa. In funzione dei pellegrinaggi sorsero le scholae pere­grinorum che, oltre ad alloggiare i pellegrini stranieri -specie Franchi, Bretoni e Anglosassoni- costituirono anche un piede a terra dei gruppi nazionali stabili di devoti di s. Pietro.

I Papi, grazie al patrimonio, poterono anche assicurare l'assi­stenza pubblica tramite le diaconie, originariamente un'istituzione monastica di servizio a favore dei bisognosi che in Oriente era sorta, presso i monasteri, sin dal IV secolo. A Roma le diaconie, ricordate a partire dal pontifi­cato di Benedetto II (684-685), erano pre­siedute da un funzionario della corte papale o dell'amministrazione civica, detto pater o dispensa­tor ed erano dotate di beni e di masse. La diaconia era costituita da una chiesa, una piccola cappella che serviva per le funzioni che accompa­gna­vano l'assistenza materiale; da un monastero per i monaci che si dedicavano al­l'assistenza e dalla diaconia vera e propria, il luogo desti­nato ai vari compiti di as­sistenza pubblica. I compiti principali: lavare i poveri (il lusma) e distribuire ali­menti e denaro.

Al tempo di Adriano I (772) le dia­conie erano sedici e questo papa ne ag­giunse altre due, rima­ste sino al XVI secolo, quando Sisto V le ri­dusse a quattordici. Si trovavano nei luoghi dell'antica annona, o vicino alle terme, o lungo le grandi strade, ma quasi tutte nel centro della città: (S. Maria in Domnica, S. Lucia in Orfea, Ss. Cosma e Damiano , S. Vito in Macello, S. Agata sul Quirinale, S. Maria in Via Lata, S. Adriano, Ss. Sergio e Bacco, S. Teodoro, S. Maria Antica, S. Angelo, S. Maria in Aquiro, S. Eustachio, S. Lucia in septem soliis, S. Maria in Cosmedin, S. Giorgio al Velabro, Ss. Nereo e Achilleo, S. Bonifacio sull'Aventino).

Con le diaconie si sviluppò anche la corte papale, quale con­se­guenza dei sempre crescenti compiti amministrativi che i papi vennero ad assumere a motivo della scarsa efficienza del governo bizantino a Roma. Sede del papa era il Laterano che, sotto l'in­flusso del modello di Costantinopoli, alla fine del VII secolo da epi­scopium si trasforma in pa­triarchium; mentre al principio del sec. IX, per indicare la corte ponti­ficia, si usa l'espressione "sacrum palatium lateranense".

Coloro che en­travano a far parte del servi­zio del papa erano chierici o laici. I primi venivano scelti fra gli al­lievi dell'orphanatrophium , o schola cantorum: una, al Laterano e l'altra, a s. Pietro: una specie di seminario, dove veni­vano formati alle lettere e alla liturgia; mentre i laici venivano scelti fra l'aristo­crazia cittadina e prendevano posto fra i cubicularii. Il clero, che riceveva solo la tonsura e gli ordini minori, non era tenuto al celibato e, volendo entrare negli ordini maggiori, ab­bandonava la moglie che prendeva il nome di epi­scopa, presbi­tera, diacona.

Alle dipendenze del vice­dominus, cui era affidata la cura del patriarchio, v’erano: i cubicu­larii (camerieri) ad­detti al servi­zio dell'appartamento papale, il vestiarius addetto alle vesti pre­ziose del papa, i callerarii, alle cucine e gli stratores, alle cavalca­ture. Mentre altri ufficiali provvedevano all'amministrazione: tali i notarii con a capo un primicerius e i defensores con a capo un se­cundicerius; costituivano due collegi, riuniti in scholae.

Insieme agli uffici dell'amministrazione papale, nel VII secolo si fissò anche l'ordinamento del clero romano. Accanto al papa, quali suoi ausiliari negli uffici ecclesiastici e sostituti nelle solenni cerimonie li­turgiche, c'erano i vescovi di al­cune sedi vicine di cui, Stefano III nel 769 fissò il numero e il nome. Nella vita di questo papa sono detti "septem episcopi cardinales ebdomadarii": cardinales in quanto lasciavano le proprie sedi per incardinarsi al servizio della chiesa romana; ebdoma­darii, per il loro ufficio liturgico, a turni settimanali, nella chiesa del Laterano, la cattedrale del papa. Solo in un secondo tempo il nome di cardinale fu dato anche ai presbiteri che reggevano le chiese ti­tolari di Roma, va­riando il numero, da venticinque a ventotto chiese presbiterali. Lo stesso Stefano III, dispose, contestualmente, che l'elezione del nuovo papa doveva essere com­piuta dal clero romano, per acclamazione e l’eletto si doveva sce­gliere tra presbiteri e diaconi; era pertanto escluso il passaggio a Roma da altra sede e non era previsto che venissero eletti dei laici.