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La situazione della Chiesa

Qual è la situazione interna della Chiesa?


A questa trasformazione degli organi più alti della vita eccle­sia­stica corri­spose, nei ministeri inferiori, l'istituto della "chiesa pro­pria" (Eigenkirche), svilup­patosi, fra X e XI secolo, in concomi­tanza all'au­mento della popolazione nelle campagne.

Il sistema della patrimonialità, o della "chiesa privata", è una forma agra­ria di origine germanica che, a partire dal VII secolo, si diffuse in Francia, poi in Italia, riuscendo ampiamente a imporsi sulla chiesa epi­scopale.

Il dominus, che fon­dava una chiesa, era te­nuto a dotarla del pa­trimonio necessario al funzionamento e al so­stentamento. Centro o "ti­tolare" del patrimonio divenne l'altare, o il corpo santo che vi riposava. Scopo del patrimonio era il fun­zio­namento e il manteni­mento della Chiesa; l'eccedenza spettava al patrono, che aveva anche diritto a una parte delle primizie, delle obla­zioni e di quanto corrisposto dai fedeli in oc­casione dell'ammini­strazione dei sacramenti, appunto i diritti di stola, anticamente proibiti, ma poi entrati nel diritto ecclesiastico attraverso l'orga­niz­zazione della chiesa pri­vata. Se il patrono era, egli stesso, sa­cer­dote esercitava direttamente la direzione, spirituale ,della chiesa; al­tri­menti ne incaricava un sacerdote che all'inizio spesso era il suo servo o un mercenario pagato (mercenarius o conductus).

La legi­sla­zione ca­rolingia intervenne disponendo (819) che il sacerdote della chiesa pri­vata doveva essere necessariamente un libero, il quale veniva infeu­dato alla chiesa pri­vata, a titolo di prestito; il che però lo sottraeva all'in­fluenza del vescovo. E poiché il proprietario dell'altare poteva libe­ramente cambiare o abolire lo stato di appar­tenenza, le chiese, costruite dai padroni nel loro terreno patrimo­niale, in forza della concezione giuridica feudale del tempo, alla stregua delle altre proprietà o diritti feudali (es. un mulino), pote­vano essere essere vendute, donate, ereditate come beni di fami­glia e così i rispettivi patrimoni. La legislazione inter­venne allora per limitare i di­ritti dei patroni al solo complesso dei beni: fu di­spo­sto che il patrimo­nio, una volta passato all'al­tare, non poteva più es­sergli tolto; come complesso però la chiesa pri­vata poteva li­bera­mente essere ceduta impe­gnata o ereditata.

Con l'an­dare del tempo anche re e grandi di Francia fecero proprio il concetto giuridico di chiesa privata e, per qualche tempo, questa prassi ebbe persino il riconosci­mento di papa Eugenio II, nel sinodo romano dell'826 e di Leone IV in un sinodo dell'853. Lo stesso accadde nelle chiese vescovili, nei vescovadi, anche le chiese cattedrali e nelle abbazie, ri­ma­ste fino allora libere, che di­vennero proprietarie di chiese; unico vantaggio, che queste dipendevano da un'autorità ecclesia­stica.

Questo sistema giovò indubbiamente al clero secolare, permettendogli di inse­diarsi in parrocchie di campagna, ora­tori, e cap­pelle; più ancora giovò alla grande espansione monastica, ma allo stesso tempo introdusse, al­l'interno di organismi ecclesiastici, ele­menti estranei alla loro piena autonomia dal potere secolare; il che, in epoca feudale, fece sentire tutto il suo peso. Per questo il mo­vimento di ri­forma della Chiesa lo combatterà fortemente finché venne superato nella lotta delle inve­stiture o lotta tra sacerdotium e imperium, che a lungo in­quietò la Chiesa medie­vale, mettendo in crisi l'universalismo me­dievale.

Le condizioni del clero delle "chiese proprie" erano, in ge­nere, basse, as­servito com'era ai signori da cui dipendeva. Ogni chiesa era officiata da un pre­sbyter o rector e dipendeva dal se­nior, proprie­tario della chiesa, nella forma di un legame feudale.

Doveva infatti pre­stagli honor, reverentia, obsequium e ricevere da lui la chiesa con l'atto della commendatio ecclesiae o donum ec­clesie, espressa con la conse­gna di un simbolo (stola o chiavi della chiesa, un pezzo della corda delle campane). In cambio, il prete pa­gava al signore una somma, per il dono della chiesa, simile al diritto di introitus dato per ogni concessione feudale. In forza del princi­pio canonico il prete rurale era però sotto­messo anche al ve­scovo da cui doveva ricevere l'institutio canonica dell'ufficio ec­clesia­stico. All'epoca non era ancora entrata la distin­zione tra de­signatio personae (che dà uno ius ad rem), la vera e propria insti­tutio ca­nonica fatta dall'autorità ecclesiastica (che dà uno ius in re) e la installatio o investitura, cioè la presa di possesso.

Lo stesso pro­blema si verificava per i vescovadi che venivano commendati dal sovrano mediante la dominicatura, cioè la conse­gna al vescovo dei sim­boli del suo ufficio: "accipe baculum, accipe anulum, accipe ecclesiam", diceva il so­vrano, intendendo così ri­mettere al vescovo la chiesa catte­drale, con tutte le pro­prietà di terre e i diritti feudali annessi a quell'e­piscopato. Il vescovo, da parte sua, faceva il giura­mento di fedeltà "sicut homo sui seniori".

L'episcopato divenne così un honor e il consensus da parte del principe, a partire dal se­colo IX, fu rite­nuto elemento essen­ziale per l'elezione ecclesiastica, insieme alle forme canoniche della electio cleri et populi e al di­ritto di esame e di consacrazione da parte del metropolita.

Spesso l'assenso del principe precedeva l'elezione ca­nonica e il so­vrano dava per primo l'investitura con l'anello e il pa­sto­rale, in seguito al quale i vescovi amministravano subito le loro chiese, senza atten­dere la consacrazione episcopale. Non rari fu­rono i vescovi e gli abati rimasti laici.

A portare all'infeudamento la gerarchia ecclesiastica fu la po­litica feudale dei Sassoni. Nei feudi franchi la proprietà passava inte­gralmente al primogenito: così per i cadetti divenne via abi­tuale quella di trovare il modo di compensarsi del mancato feudo laico con un feudo ecclesiastico.

E' giocoforza che questi cadetti portassero facil­mente nella Chiesa le consuetudini e i vizi dei feu­datari laici: fra tutti il deprecato concubinaggio. Come lamenta il sinodo di Trosly, nella dio­cesi di Soissons, dell'anno 909: fin troppi gli abati che abitavano nei monasteri con le loro mogli e figli, con i vassalli e con i cani da caccia; mentre i monaci, abbando­nando a loro piacimento il chiostro, condu­cevano una vita completamente mon­dana. Attraverso l'investitura, che faceva del vescovo il conte e dell'abate il vas­sallo, il sovrano poteva, di fatto, dominare l'elezione e la sistemazione del­l'alto clero, riu­scendo a fare di sedi vescovili e abbaziali, oggetto di trattative, ba­ratti e autentiche compre-vendite: la simonia invase così tutto il tessuto gerar­chico della Chiesa.

Alla stregua dei conti e dei duchi, nell'ambito delle diocesi, l'ul­timo dei ca­stellani agiva nell'ambito della parroc­chia. Nella maggior parte dei casi era stato lui a far costruire a sue spese la chiesa; inten­deva rimanerne signore. Si sceglieva dunque fra i suoi fattori e conta­dini il curato, pronto a licenziarlo quando non gli andava più a genio. Uno stato di asservimento che fu com­pletato dalla patrimo­nialità degli uffici e dal matrimonio dei sacer­doti. Carne e terra costituirono la gabbia con cui la feudalità tenne sot­tomesso il clero.

La Chiesa comin­ciò così sempre più ad abbarbi­carsi ad un suolo che la ali­mentava, ma allo stesso tempo la incate­nava e la imprigionava. Quantunque si­nodi e concili avessero proi­bito il matrimonio dei sacerdoti, questo era prati­cato con una certa regolarità e la tendenza era quella di secolarizzare il clero. Era an­che acca­duto che qualche vescovo avesse tentato di tra­sfor­mare la sua dio­cesi in feudo; e taluno, dopo essersi sposato, aveva pensato anche di darne una posizione per i propri figli, per farne dei successori nell'episcopato.