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Lo scisma d'Oriente

Sotto s. Leone IX (1049-1054), papa tedesco, si consumò la crisi tra Roma e Costantinopoli.


Tra le due Rome all’epoca, se non c’era propriamente stato di guerra, per lo meno i rapporti diplomatici erano rotti. La crisi in atto era dovuta a contrasti ecclesiastico-culturali (diversità di lingua e di carattere, di costi­tuzione ecclesiastica, di liturgia e di teologia) e a dif­ferenze politiche (tramonto del domi­nio bizantino in Italia, unione dei papi con i Franchi e fondazione dello Stato Pontificio; ripristino del­l'impero occidentale sotto Ottone I).

I bizantini insistevano sull'orto­dossia della propria chiesa, mentre giudicavano le usanze particolari della Chiesa latina come una decadenza, rispetto alla tradizione aposto­lica.

Michele Cerulario

Lo scisma, che esisteva latente, scoppiò all'improvviso sotto Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli (1043-1058), il più ascoltato dei consiglieri del Basileus.

Fra Bizantini e Tedeschi v’erano stati contrasti a motivo dell’Italia meridionale, ma questi stavano ora per mutarsi in alleanza, grazie ad Argyros, il nuovo governatore d’Italia (catapano), giunto a Bari nel 1051. Questa alleanza era però sfavorevole al patriarca Michele Cerulario: l’unione politica fra il Basileus e l’Occidente avrebbe significato la fine della sua autocefalia.

Già nel 1050 Michele Cerulario aveva accu­sato i Latini, come eretici. Quindi, quale rappresaglia contro la politica di latinizzazione, condotta nell'Italia bi­zantina -a nome del sovrano- dal governatore Argyros (col quale peraltro il Cerulario era già entrato in con­trasto a Costantinopoli) il patriarca, nel 1052, iniziò l’offensiva contro i latini stabiliti a Costantinopoli e contro le chiese in cui celebravano i loro riti. Fu dato ordine di farle chiudere, di confiscare i monasteri latini e furono persino profanate le ostie dei latini e calpestate poiché -dicevano- il pane azzimo (non lievi­tato), non può essere validamente consacrato. Quest’uso del pane azzimo per la comunione era stato però introdotto in Occidente sin dal sec. VIII, cioè da circa tre secoli.

Quindi, nella primavera del 1053, seguì una dichiarazione di guerra inviata a Roma dalla chiesa greca e pervenuta proprio nel momento il cui il papa stava allestendo una spedizione contro i Normanni.

L'arcivescovo Leone di Ocrida (in Bulgaria) inviò -di certo consensiente Michele Cerulario- una lettera circo­lare a Giovanni vescovo di Trani (Puglia, nel tema dei Longobardi), un vescovo che, sebbene in territorio bizantino, seguiva il rito latino e dipendeva ecclesiasticamente da Roma. Nella lettera si at­taccavano e condannavano violentemente i riti liturgici latini, in parti­colare l'uso del pane azzimo, accusando gli occidentali di non essere "né giudei, né cristiani" e rivendicando ai bizantini di man­tenere la dottrina autentica dei ss. Pietro e Paolo. La lettera era anche di­retta, per conoscenza a tutti i vescovi Franchi, cioè latini e allo stesso reve­rendissimo papa. Il vescovo Giovanni era amico di Argyros: egli era dunque un intermediario; così, atttraverso lui, si voleva colpire il clero latino, ma anche la politica di Argyros. A sua volta dietro Leone di Ocrida v’era il patriarca di Costantinopoli. E la lettera era pertanto il messaggio di Michele Cerulario a papa Leone IX. Leone chiedeva che i latini riconoscessero subito i loro torti, enormi errori che impedivano l’unione fra i cristiani. Erano però quisquiglie liturgiche e questioni alimentari che non toccano il dogma.

La lettera, giunta a Roma, fu tradotta, dal greco in latino, dal card. Umberto di Sivacandida, cui il papa diede anche l’incarico di rispondere, controbat­tendo le tesi.

Il card. Umberto, uomo di studio e conoscitore dei testi dell'antico di­ritto canonico e degli scritti dei Padri greci, rispose con due lettere fatte proprie dal papa e indirizzate all'imperatore e al patriarca. Umberto è brillante nella parte difensiva, dove respinge con genialità le accuse dei Greci; meno felice nella parte aggressiva, dove combatte, come adul­terio e eresia nicolaita, il matrimonio degli ecclesiastici che in Oriente era invece in uso sin dall'antichità. Altrettanto infelice l'ac­cusa di macedonianismo, perché i greci avevano levato dal Credo il Filioque, la formula introdotta in Occidente nel Credo nel sec. VI (III concilio di Toledo, del 589) per indicare la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Compì poi un atto di arbitrio, asserendo che Cerulario era l'autore della let­tera, che in­vece aveva come solo autore Leone, anche se il patriarca non vi era rimasto estraneo.

Nel frattempo la difficile situazione nell’Italia merdionale aveva spinto Michele Cerulario a fare un passo indietro. Subito dopo il disastro di Civita, dove papa Leone IX fu fatto prigioniero, ci fu un appello di Argyros per cui da Costantinopoli partirono due lettere per l’Italia meridionale: l’una del Basileus, l’altra del patriarca.

I testi sono andati perduti, sono note però le due risposte della curia. Il patriarca aveva inviato al papa una lettera moderata dove non venivano discusse nessuna delle accuse mosse da Umberto in risposta alla lettera di Leone di Ocrida; si duoleva invece dei lunghi dissensi che separavano le due chiese, di fatto divise dal tempo del patriarca Sergio II (999-1019) che aveva fatto togliere il nome del papa dai dittici, dove figurano le persone da ricordare nei Santi Misteri. Michele Cerulario si dichiarava pronto a rimettere nei dittici il nome del papa, magari in cambio di una menzione del patriarca durante i Santi Misteri dei latini. Stessi i sentimenti che dominavano la lettera dell'imperatore Costantino IX Monomaco (1042-54) il quale si era interposto, per un ten­tativo di pacificazione; e sinceri erano i suoi desideri di pace fra le due chiese, promettendo di fare tutto il necessario per cavare Leone IX dalla sua penosa situazione di prigioniero.

Furono queste due lettere che spinsero Leone IX, allora prigioniero a Benevento, ad inviare a Costantinopoli una delegazione pontificia, un Istituto con pieni poteri che si era rinnovato a partire da questo pontificato.

La delegazione pontificia era composta dal segretario papale -il card. Umberto di Silva Candida dal can­celliere papale Federico di Lorena (più tardi Stefano IX, 1057-58) e da Pietro ar­cive­scovo di Amalfi. Scopo dei legati: esaminare la causa del patriarca Cerulario, ac­cu­sato di errori dottrinali e di ingiuste misure disciplinari e, se non si fosse suffi­cientemente discolpato o ritrattato, procedere alla sua condanna.

La delegazione passò per la Puglia e si incontrò con Argyros. Sbarcati a Costantinopoli i tre trovarono difficoltà nell’incontrarsi con il patriarca Cerulario, che considerò quella missione una manovra del proprio avversario Argyros; si lamentò pertanto che i tre legati non gli avevano reso l'o­maggio della venerazione (la bi­zantina proskunesis), né si erano contentati di se­dere dopo i me­tropoliti. Intento del patriarca: rifiutare il riconoscimento del loro grado e del loro ufficio di legati, per sottrarsi così al loro giudizio. Per lo stesso motivo rigettò la lettera di Leone IX, che gli avevano consegnata, con il pretesto che era una falsificazione preparata da Argyros. Inoltre proibì agli stessi legati di celebrare messa nelle chiese di Costantinopoli.

A rendere più tesa la situazione, fu l'in­tervento di Niceta Stetatos, un vec­chio monaco di Studios che, con uno scritto polemico, attaccò, ol­tre gli azzimi e il digiuno sabba­tico, anche la legge del celibato dei latini.

Subito confutato dal card. Umberto, quel testo fu fatto bruciare dal­l'impe­ratore. Forti del successo, i Legati vollero procedere anche contro Cerulario, il quale si ostinava a non riceverli.

Il rifiuto da parte di Michele Cerulario di trattare con giudici che avevano au­torità apostolica fu in­terpretato come pertinacia nell'errore. E sicuri del pieno consenso del papa -il quale però era già morto il 19 aprile- deposero sull'altare maggiore della chiesa di S. Sofia, dinanzi al clero e al popolo riu­niti, mentre si re­citava l'Ora di Terza, la bolla di scomunica contro il patriarca e i suoi seguaci (16 luglio 1054).

I legati seguirono in ciò la prassi ed il rituale (Ordo excommu­nica­tionis) in uso in Occidente; indubbia­mente però il gesto fu offen­sivo. Nel disposi­tivo della sentenza si legge che il Cerulario e i suoi se­guaci erano stati condannati per una duplice motivazione di colpe: la prima, di ordine dottrinale; la seconda, di ordine discipli­nare.

Dieci gli errori denunciati -alcuni dal card. Umberto falsa­mente attribuiti al Cerulario- per lo più er­rori di altri tempi, come l'eresia dei Valesii che pratica­vano la ca­strazione; altri erano errori ed abusi reali, come il ri­battezzare i latini ed il negare il valore del sacrificio eucaristico, cele­brato con pane azimo; o il rifiuto della comunione ai sacerdoti latini, perché si radono la barba. Decisamente più concrete le accuse di or­dine disciplinare: rifiuto di rice­vere i legati che si presenta­vano come legati del papa e di trattare con loro argo­menti per cui il pontefice li aveva inviati in legazione; la negata comunione ai la­tini che si taglia­vano la barba e i capelli; la proibizione di celebrare messa, proibi­zione poi estessa agli stessi le­gati e la chiusura di tutte le chiese latine di Costantinopoli. Secondo i princìpi del diritto ca­nonico quei fatti costi­tuivano gravi infrazioni, colpe disciplinari meritevoli della pena cano­nica della scomunica e per­sino della de­posizione.

La scomunica, pronunciata dai tre legati, era circoscritta al Cerulario, a Leone di Ocrida e a Costantino il sacellario (tesoriere, qui latinorum sacrificium pofanis conculcavit pedibus: giunto a di­chiarare non consacrata la santa ostia degli "azzimisti" l'aveva cal­pestata con i piedi). Mentre dalla scomunica si esclu­deva l'impera­tore e la città di Costantinopoli, dichiarata "cristianissima e orto­dossa".

Ci si domanda se quella scomunica, lanciata dai legati il 16 luglio, era va­lida, essendo papa Leone IX morto il 19 aprile. Antonio Michel, il migliore stu­dioso sull'argomento, dimostra che, già dal sec. XI, vigeva quel principio, san­cito più tardi da una de­cretale di Niccolò II (1059-61), che cioè i poteri del legato non cessavano con la morte del pontefice delegante, per il motivo enunciato dalla cor­rispodente glossa: "legatus enim papae dici­tur legatus Sedis apostolicae, sed Sedes ipsa non moritur". Più debole la prova dell'inefficienza del servizio postale dell'epoca per cui, a tre mesi dalla morte del papa, a Costantinopoli non sarebbe ancora giunta la no­tizia e ciò quando, nel sec. V, per recapitare una lettera da Roma a Costantinopoli bastavano due mesi. Di certo questa fu conosciuta da Michele Cerulario quando scrisse la prima lettera a Pietro patriarca di Antiochia.

La vicendevole scomunica

Il patriarca di Costantinopoli, sfruttando il favore popolare, non solo impedì che l'imperatore difendesse l'operato dei legati, ma il 20 luglio, convocato il si­nodo permanente di Costantinopoli, presenti 21 metropoliti, fece pronunciare una prima scomunica contro "l'empio li­bello", cioè la bolla di scomunica.

La dome­nica successiva (24 luglio), nella stessa chiesa di S. Sofia, il Cerulario fece leggere l'editto sinodale -sua opera- dove si lanciava l'anatema contro i legati; si evitava però ogni accenno o ricorso al papa. Prendendo lo spunto dall'enciclica di Fozio del 867, si accusavano i Legati di empietà poiché venivano dal­l'Occidente, re­gione delle te­nebre e tendenziosamente si presentavano come motivi della sco­munica fatta dai legati la fede ortodossa e il non voler radersi la barba.

Quindi Michele Cerulario cercò di coinvolgere tutta la Chiesa d'Oriente nella condanna che lo aveva colpito, rivolgen­dosi con due lettere a Pietro patriarca di Antiochia, un moderato pro­penso verso Roma, al quale presentantò una versione tenden­ziosa dei fatti. Questi però scongiurò il patriarca di Costantinopoli di ri­pristinare quanto prima l'unione.

Questi fatti ebbero, per circa un secolo, un carattere episodico e accidentale, tanto che la sentenza di scomunica, pronunciata dai tre le­gati a Costantinopoli, non ricevette conferma, né fu mai ri­cordata in al­cun documento papale poste­riore. E d'altronde, dalla scomunica la bolla escludeva, esplicitamente, la città cri­stianissima ed ortodossa di Costantinopoli con le sue autorità, il suo clero e il suo popolo. A sua volta il Cerulario non volle coin­volgere il papa nella scomunica del sinodo perma­nente, diretta unicamente contro i tre legati. Perciò nel 1054 non si ebbe né la condanna della Chiesa bizantina, né la condanna della Chiesa la­tina.

Michele Cerulario cadde in disgrazia e morì nel 1059, ma l'e­sem­pio di Costantinopoli fu seguito anche dagli altri patriarcati d'Oriente presso i quali si era andata affermando la cosiddetta dot­trina della cin­que teste della Chiesa, cioé dei cinque patriarcati tutti uguali, compreso il papa, di fronte al capo supremo che è Cristo, giustificando così la loro divisione in atto dalla Chiesa ro­mana.

La risco­perta dell'inizio uf­ficiale della rottura e dello scisma tra le due Chiese, nelle due scomuni­che del 1054, fu molto più tarda e avvenne nella seconda metà del secolo XIII, in occasione delle crociate, a motivo delle ostilità tra i Greci e i Franchi. Solo dopo il Concilio Vaticano II e a seguito degli incontri di Paolo VI con il patriarca ecumenico Atenagora (1964-67) è stata dichiarata la piena e vicendevole remissione di tutte le scomuniche.