Questo è il tuo spazio puoi scrivere ciò che vuoi e poi ritrovarlo al ritorno su questo sito

testimonianze cristiane, storia della chiesa cattolica, teologia, esegesi, aborto, famiglia, battaglia per la vita

Laterano IV

La maggior opera di Innocenzo III, fu indubbiamente il concilio Lateranense IV.


Duplice lo scopo che il pontefice si era prefisso, convocando questo concilio: la riforma della Chiesa, intesa come rinnovamento dei co­stumi del popolo e del clero e la cro­ciata, quale impresa del populus christianus, rappresentato dal concilio stesso.

Aperto l'11 novembre 1215, alla presenza di 412 vescovi e più di 800 abati e priori, si tennero tre sessioni -l'ultima il 30 novembre- nelle quali furono promulgate 71 costituzioni.

Le prime tre costituzioni sono dot­trinali: si inizia con una una professione di fede; la seconda costitu­zione condanna un opuscolo di Gioacchino da Fiore che aveva attaccato la dottrina trinitaria di Pietro Lombardo e inoltre gli errori di Amauri di Chartres, eretico pantei­sta ed apocalittico, messo al rogo a Parigi nel 1210.

La terza, tratta della repressione delle eresie, stabilendo le pene da applicare agli eretici e ai loro favoreggiatori e il modo di ricercarli. Seguono ca­noni disciplinari riguardanti l'organizzazione ecclesiastica.

Importante la costituzione 6, che stabilisce la periodicità annuale dei concili pro­vinciali e dei sinodi diocesani.

Questa costituzione -come ha osservato Michele Maccarrone- si situa "in una organica concezione della struttura sinodale della Chiesa, in tre gradi connessi e dipendenti: concilio generale, conci­lio provin­ciale annuale e sinodo diocesana, o episcopale, anch'essa annuale". Questa triplice struttura sinodale, pro­pria della prassi e della normativa della chiesa antica (Decretum, Magistri Gratiani, Dist. XVII e XVIII col. 50-58), nel secolo XV sarà ribadita e precisata con grande chia­rezza, sia pure nella visione conciliarista af­ferma­tasi a Costanza, dal concilio di Basilea, che ne trattò ampiamente nella XV sessione, del 26 novembre 1433. Non sappiamo però se la pe­rentoria norma della costituzione 6 del concilio lateranense IV che, sotto pena di sospensione dall'ufficio, imponeva ai vescovi metropoli­tani e ai vescovi diocesani rispettiva­mente la celebra­zione annuale dei concili provinciali e delle sinodi epi­scopali, sia stata sempre e dovun­que regolarmente osservata. Certo è che, sia in Italia che negli altri pa­esi dell'Europa, si assistette, nei secoli XIII e XIV, ad una fioritura di questa antica istituzione, che va attri­buita -come osserva il Maccarrone- "al benefico influsso della cost. 6 del IV Lateranense".

La novità rivoluzionaria, introdotta da questo concilio, è la pa­storale sacramentale. Nella cost. 27, mutuando da Gregorio Magno l'e­spres­sione ars artium, da lui coniata per un regimen animarum, il con­cilio

"comanda fermamente ai vescovi di istruire dili­gentemente quelli che devono essere pro­mossi al sacer­dozio e di inse­gnare loro diretta­mente, o per mezzo di persone ca­paci, quanto attiene alla valida cele­brazione dei divini uffici e al­l'amministra­zione dei sa­cramenti", e con­clude che "è preferibile avere pochi e buoni ministri che molti e cat­tivi".

Fa il paio, con questa, la costituzione 11, che tocca il pro­blema dell'istruzione del clero, disponendo, in ogni chiesa catte­drale, l'istitu­zione di un mae­stro per gli ecclesiastici e, in quelle arcive­scovili, l'isti­tuzione di un teologo che insegni teologia.

Tuttavia, per la formazione del clero delle campagne, fino ol­tre il concilio di Trento, rimase in vi­gore l'apprendistato presso le pievi; mentre per un pro­gramma di ri­qualificazione continua del patrimonio specifico di cono­scenze del clero, con cura d'anime, si utilizzò il sinodo locale.

Concernono la cura animarum le costituzioni 9 e 21. La prima prescrive il rispetto della lin­gua e del rito dei fedeli nelle regioni a popolazione mista.

La costitu­zione 21, Omnis utriu­sque sexus, introduce l'obbligo della confessione annuale e della comunione a pa­squa, legandolo però al controllo del proprius sacerdos. In seguito la legislazione sinodale stabilirà che il sa­cerdote in cura di anime dovrà trasmet­tere al vescovo la lista dei non adempienti e si baserà su quel rap­porto annuale per il censimento dei suoi parrocchiani.

La cost. 62 raccomanda di non ammettere religiosi e predica­tori non ap­provati; e la 66 proibisce le tasse per funerali e ma­tri­moni, ma ammette l'offerta.

Questo concilio affronta così temi fon­damentali del­l'apostolato sacerdotale, come la predicazione dei sacer­doti in cura d'anime, l'istruzione religiosa del popolo e l'e­sercizio della carità.

Di lì a qualche anno per questi compiti di base della pastorale, in particolare per la predicazione e la confessione, specie in Italia, si veri­ficherà però una supplenza da parte degli ordini mendicanti, identifi­cati già da Gregorio IX con i "viri idonei", "coadiutores et cooperatores" cioè i supplenti dei vescovi per l'uf­ficio previsto dal Lateranense IV con il can. 10: il "De predicatori­bus in­sti­tuendis", che raccomanda appunto l'istitu­zione, in ogni diocesi, di gruppi di sa­cer­doti secolari, viventi in comune, alle di­rette dipendenze del vescovo e dediti alla predicazione e al mini­stero spirituale nelle chiese.

La cost. 12 regola la vita monastica benedettina stabilendo, sul modello ci­stercense, capitoli generali trien­nali al fine di rac­cogliere tutti gli abati di una pro­vincia o di un regno. La stessa mi­sura fu poi applicata ai Canonici Regolari, che però, dopo la fiori­tura del sec. XII, erano in declino. Negli altri ordini religiosi, Cistercensi, Premostratensi, Giovanniti, Templari ecc. lo stesso Innocenzo III aveva favorito la loro disciplina, accentuando la vigi­lanza e l'intervento della Santa Sede.

La cost. 13 è divisa in due parti: la prima proibisce la fondazione di nuove comunità religiose "Ne nimia religio­num diversitas ... quicunque volue­rit ad religio­nem converti, unam de approbatis assumat". La seconda, estende alla Chiesa universale alcune proibizioni emanate dal concilio di Parigi del 1212: ai monaci si proi­biva di cambiar sede e agli abati di stare a capo di più monasteri, proi­bizioni che del resto risponde­vano al rigido principio della Regola di s. Benedetto che imponeva la stabilitas in congregatione.

Più importante la prima parte, che ri­guarda la fonda­zione di nuovi ordini. Il pontefice, che nel 1210 aveva oralmente ap­provato la regola di s. Francesco, volle porre un limite alle richieste di approvazione (firmiter proibemus), in­diriz­zando le nuove fondazioni religiose nelle regole già esistenti (di s. Benedetto e s. Agostino -che or­mai dominavano la vita religiosa re­golare dell'occidente- e di s. Basilio, osservata nei monasteri di lin­gua e di rito greco), lasciando però ad ognuno la libertà di vita e di organizzazione (le institutiones, cioè le forme di vita -sia mona­stica che canonicale- che costitui­vano una spe­cificazione, rispetto alla regola). La costitu­zione lasciava piena libertà alle nuove fon­dazioni di darsi propri ordina­menti (consuetudines, ob­servantiae, statuta, proposita), ma vietava nuove religioni che godevano privi­legi ed esen­zioni e una propria e ri­conosciuta disciplina. E ciò per­ché la "religionum diversi­tas" causava una grande confusione nella Chiesa e pertanto era motivo di scan­dalo.

Tra gli altri canoni del Lateranense IV, va segnalato quello che proibisce l'u­sura agli ebrei ai quali, per di più, il concilio im­pone uno speciale distin­tivo e l'isolamento dai cristiani.

Quanto ai rapporti tra S. Sede ed episcopato, altro capitolo della riforma della Chiesa, con Innocenzo III si intensificano ed aumentano gli interventi sui ve­scovi a proposito di elezioni, tra­slazioni e deposi­zioni.

Metropoliti e gli arci­vescovi, eletti ca­nonicamente dai loro suffraganei, dovettero piegarsi a richiedere il pallium a Roma per eser­citare la loro autorità. Innocenzo III tuttavia adottò la politica di dare maggiore poteri ai vescovi sia con le delegazioni permanenti (delegati a jure), sia affidando loro incari­chi di riforma e di giudici (giudici dele­gati).

Avendo un'idea piuttosto astratta dei mali della Chiesa del suo tempo, Innocenzo III era convinto di porvi rimedio semplice­mente applicando i canoni conciliari di riforma.

Il Concilio late­ranense IV è indubbiamente una tappa essenziale di quel generale processo di riorga­nizzazione pastorale, caratterizzsato da una li­nea di attenzione verso le esigenze religiose di fondo del popolo cristiano, quali si erano venute prospettando in conseguenza degli esiti della riforma gregoriana e dei nuovi sviluppi della società. Erano tuttavia diminuiti i grandi mali del concubinato e della si­monia; men­tre ciò che mancava, e neppure Innocenzo III riuscì a dare, era un piano organico di riforma dell'orga­nizzazione diocesana che per­mettesse al ve­scovo di controllare e di di­rigere la vita religiosa del clero e dei fedeli, facendone il vero capo della diocesi. Si sviluppa invece la tendenza opposta: ogni organismo ecclesiastico rivendica una propria autonomia: così il capitolo catte­drale, l'arcidia­cono, i monasteri esenti, gli stessi ordini mendicanti.