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testimonianze cristiane, storia della chiesa cattolica, teologia, esegesi, aborto, famiglia, battaglia per la vita

San Gregorio Magno e il suo tempo

Figura molto interessante venerata da Cattolici e ortodossi. Nella Storia della Chiesa ha una rilevanza importante


Dopo i disa­stri delle guerre gotiche molti cattolici italici, di­nanzi all'avan­zata dei Longobardi, preferirono porsi sotto il pa­tro­nato di un ecclesiastico, anzi­chè di un signore laico. I duchi longo­bardi, nel sottomettere buona parte d'Italia, fecero un'ecatacombe del ceto dominante, massacrando preti, distruggendo città ed edi­fici sacri e stremando gli abitanti. Si moltiplicarono così le fughe dalla poli­tica alla religione.

La sua storia

Molti così do­narono alla Chiesa o fon­dano nuove chiese la­sciandole poi eredi dei loro beni. Tra questi un giovane di nome Gregorio, un pa­trizio che era stato avviato alla carriera degli onori e intorno al 573, poco più che trentenne, rive­stì la carica di prefetto di Roma.

Durante la prefettura gli morì il padre; sua ma­dre si ritrasse a vita religiosa e lui stesso maturò il proposito della fuga dal mondo. Quindi, tra il 574-75, depose l'a­bito di lusso, tempestato di gemme e d'oro, con cui in passato so­leva girare per la città e vestì l'umile saio del mo­naco, ritirandosi nella casa, ereditata dal padre, sul Clivus Scauri che tra­sformò nel monastero di S. Andrea.

Il passo compiuto da Gregorio, indubbiamente generoso ed eroico, non co­stituiva allora qualcosa di assolutamente nuovo e raro. La vita monastica aveva rice­vuto nel VI secolo un impulso straordinario ed in molti luoghi erano sorti mo­nasteri che si riem­pivano non solo di gente prove­niente dalla classe popolare, ma an­che di discendenti delle nobili famiglie romane. Lo stesso Gregorio ne ricorda molti, nei suoi Dialogi, come quello isti­tuito a Fondi dal patrizio Venanzio, ceno­bio che contò fino a duecento monaci (Dial. I, 1); quello di Alatri, fon­dato dal pa­trizio Liberio (ibid. II, 35) quello femminile, fondato in Roma, presso la basilica di S. Pietro, dalla nobile vedova Galla (ibid. IV, 13) e molti altri. Oltre al mona­stero di S. Andrea sul Celio, Gregorio ne fondò altri sei in Sicilia, dotandoli con le pro­prietà di famiglia che aveva nell'Isola (Gregorio di Tours, Hist. Franc. X, 1). Per maggiore umiltà Gregorio non volle egli stare a capo del suo monastero, ma ne costituì abate il monaco Valenzione, già supe­riore nella provincia Valeria, donde era stato scacciato dai Longobardi (Dial. IV, 21). Gregorio, nel mo­nastero, si de­dicò agli esercizi monastici della preghiera e dell'a­scesi. Nelle pratiche ascetiche e in particolare del digiuno egli fu così fedele alle pre­scrizioni e tradizioni cenobiti­che, da rovinare addirittura il suo stomaco già delicato e con­trarre una malattia che l'accompagnò per tutta la vita. In quegli anni, di vita monastica, lesse assidua­mente le Scritture; e poiché non conosceva né l'e­braico, né il greco, cercò di in­terpretarle studiando s. Agostino e s. Girolamo. A questa scuola si formò quello che doveva essere il papa monaco e il grande dottore della Chiesa.

La sua esperienza monastica fu tut­tavia breve: papa Pelagio II (579-90) lo promosse all'ordine del dia­conato nel 579 e lo inviò a Costantinopoli, dove rimase fino al 586. Quivi, uno degli affari più importanti, di cui dovette occuparsi Gregorio, fu la richiesta di aiuti militari per l'Italia, al fine di con­tenere la pressione longo­barda e soprattutto di sventare qualche colpo di mano nella re­gione di Roma, che era sprovvista di ogni guarnigione ed era di­fesa dalla sola milizia cit­tadina.

Purtroppo, però, l'Impero era impe­gnato nella guerra contro i Persiani, e tutto quello che si poté fare fu di inviare denaro per corrompere qualche duca lon­gobardo e comprare l'alleanza col re Childeberto II d'Au­strasia che, in effetti, discese in Italia, riportandovi però successi molto modesti. Verso la fine del suo sog­giorno a Costantinopoli la situazione in Italia di­venne meno preoccu­pante, grazie alla con­clusione di una tregua triennale tra l'esarca Smaragdo e il re Autari.

Se i successi diplo­matici di Gregorio a Costantinopoli fu­rono piuttosto modesti, deci­samente importante fu invece l'espe­rienza che egli acquistò degli uomini e delle ambigue arti della di­plomazia bizantina.

Nel 586, richiamato a Roma, Gregorio divenne con­si­gliere e segretario di papa Pelagio II. Sono questi gli anni in cui, vigendo la tregua tra l'esarcato e i Longobardi, vennero rinnovati i tentativi diretti a ricondurre all'u­nità e alla co­munione i vescovi della Venezia e dell'Istria che ne erano sepa­rati per la questione dei Tre Capitoli. Gregorio, come si è detto, aiutò il papa in questa iniziativa e -come si è accennato- probabilmente scrisse una delle tre let­tere, la terza.

L'opera di Gregorio presso papa Pelagio II si fece più impegnativa quando, nel 587, riprese la guerra con i Longobardi.

Alle devastazioni di questi si aggiun­sero, tra la fine del 589 e gli inizi del 590, piogge torrenziali prolungate che pro­vocarono lo straripamento dei fiumi. Tra le città inondate vi fu anche Roma, su cui il Tevere riversò grandi masse di ac­qua che tra l'altro distrus­sero tutti i depo­siti del grano. All'inondazione seguì la peste bub­bonica che fece moltissime vit­time, tra cui anche il papa Pelagio II (+5 febbraio 590).

La gravità della situazione ren­deva necessario eleggere subito un successore al defunto ponte­fice. La scelta una­nime del clero, del senato e del popolo cadde sul diacono Gregorio, già noto per i suoi meriti e per il suo zelo a fa­vore della Chiesa di Roma. In un primo momento Gregorio pensò si sottrarsi, scrivendo anche al­l'imperatore perché non confermasse la sua elezione; ma il prefetto di Roma trattenne le lettere di Gregorio e inviò solo il protocollo dell'ele­zione, un uso che era in­valso a par­tire dall'elezione di Pelagio I (556).

L'azione pastorale

Eletto nel febbraio e consacrato nel settembre 590, Gregorio si dedicò su­bito ai bisogni della città, colpita dalla peste e affa­mata.

Come prima cosa indisse una solenne processione di peni­tenza per impe­trare da Dio la cessazione della pestilenza: si tratta della litania septiformis cui do­veva partecipare tutta la popola­zione. Dopo che le varie catego­rie si erano rac­colte presso le sette chiese -il clero ai SS. Cosma e Damiano, i monaci ai SS. Gervasio e Protasio; le religiose ai SS. Pietro e Marcellino; i ragazzi ai SS. Giovanni e Paolo; le vedove a S. Eufemia, le maritate a S. Clemente e tutti gli al­tri laici a S. Stefano al Celio- dove­vano dirigersi in pre­ghiera alla basilica di S. Maria Maggiore per implo­rare ivi, tutti in­sieme, la Divina Clemenza. Le stazioni, che erano solite te­nersi nel giorno anniversario dei martiri e in certe feste dell'anno, fu­rono uno dei tanti esercizi di pietà rimessi in vigore da papa Gregorio. Egli stesso vi interveniva e teneva l'omelia sul tratto del vangelo che era stato letto. Parecchie omelie sui vangeli furono recitate nelle stazioni. E fu al termine della stazione penitenziale del 590 che i Romani speri­mentarono l'alta protezione dell'Arcangelo s. Michele. Si narra nella storia di s. Michele, trasmessaci dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine -una raccolta di storie da leg­gersi per la fe­sta del santo, un se­gno della fede dell'uomo del Medioevo- che al termine dei riti peniten­ziali si ebbe l'apparizione di s. Michele, sul culmine della Mole Adriana: da allora, per tal mo­tivo, detta Castel Sant'Angelo. L'invocazione di s. Sebastiano, come depulsor pestilentiae, risale invece alla peste che scoppiò a Roma e a Pavia nel 680, come si apprende sia da Paolo Diacono (Hist. Long., VI, 5), sia dalla Legenda Aurea.

Cessata la pestilenza rimaneva il pericolo della fame. La Chiesa romana aveva larghi possedimenti (patrimonia) specie in Sicilia. Papa Gregorio scrisse al pretore della Sicilia perché fa­cesse venire grano e altre derrate, addossandosi il compito, già degli im­peratori, dell'annona.

Il vescovo di Roma era primate d'Italia e patriarca d'Occidente, prero­gative che ben presto passa­rono in seconda linea di fronte a quella di primate di tutta la Chiesa.

Papa Gregorio fece oggetto sua cura pastorale, in primo luogo, il clero di Roma e della sua provincia ecclesiastica. In quanto vescovo di Roma, papa Gregorio richiamò i dia­coni al loro mini­stero essen­ziale, che era il servizio dei poveri e la predicazione; ordinò che al servizio del papa fossero addetti non più laici, ma solo chierici o monaci (Ep. V., 57) e creò un vicedo­minus con il compito di diri­gere l'episcopium, al po­sto dell'arci­diacono.

In quanto metropolita esercitò poi, con molta diligenza, que­st'ufficio su tutte le chiese della pro­vincia ecclesiastica romana che abbracciava l'I­talia cen­trale e meridio­nale con le isole di Sicilia e di Corsica. Controllava le ele­zioni dei ve­scovi, vigilava sull'a­dempimento del loro ufficio pa­storale e ne stimo­lava lo zelo, re­primendo abusi e persino depo­nendo chi si fosse reso indegno per gravi mancanze. Così ammonì il vescovo di Amalfi perché si assen­tava troppo spesso dalla sua diocesi; depose Demetrio, vescovo di Napoli, perché reo di gravi delitti. E fece del suddiacono Antemio un suo ispettore con incari­chi simili a quelli che avranno i visita­tori apo­stolici di età triden­tina. Ci teneva tuttavia a non inter­ve­nire nella giuri­sdizione ordi­naria dei vescovi che, in più occasioni, difese anche da altrui inge­renze.

Oltre la provincia ecclesiastica romana, in Italia v'erano -come si è detto- le metro­poli di Ravenna, Milano, Aquileia e Cagliari. Gregorio rispettò sempre i di­ritti degli altri metropoliti e non intervenne mai negli affari interni delle loro chiese. E venendo a conoscenza di eventuali abusi interveniva, sempre tramite il me­tropolita. Così, si valse del­l'arcivescovo di Milano per stabilire buoni rapporti con la regina Teodolinda, con l'intento di avviare la conversione dei Longobardi. Con il patriarca di Aquileia-Grado, Gregorio rinnovò i tentativi, già fatti da Pelagio II, per richia­marlo, insieme ai vescovi dell'Istria, al­l'unità e alla comunione con la Sede apostolica. Visto l'insuccesso, riprese quest'opera agendo sui sin­goli vescovi ed ebbe la consola­zione di riportarne alcuni a riallac­ciare la comunione con la Sede Apostolica (Epp. V, 56; XI, 201). La Chiesa di Sardegna era minac­ciata da scorrerie di Longobardi e dalla cattiva amministrazione dei funzionari bi­zantini, inviati nel­l'isola dall'esarca d'Africa. Da qui la necessità per Gregorio di in­tervenire di frequente per correggere le mancanze dell'arcivescovo di Cagliari e di stimolarne lo zelo, aiu­tandolo anche nell'opera di conversione degli ultimi seguaci del paganesimo e dei giudei che in Sardegna avevano una numerosa colonia. Gregorio non voleva che si fosse usata violenza nei loro confronti, si sareb­bero piuttosto dovuti guadagnare alla fede attraverso la persuasione. Lui stesso però non si sottrasse alla tentazione di suggerire al vescovo di Cagliari pres­sioni indi­rette, come l'aumento delle tasse ai pagani ostinati (Ep. IV, 26); e per la Sicilia Gregorio medesimo dispose il con­dono fiscale di un terzo dei tributi dovuti per quei giudei che si fossero dichiarati pronti ad abbracciare la fede cristiana. Con que­ste astuzie si ebbero in Sicilia molte conversioni di giudei; e cri­stiani sinceri fu­rono i loro discendenti. In Sardegna e in Corsica si ebbero molte conversioni di pagani i quali, peraltro, resistevano nella stessa penisola in campagna e nelle re­gioni fuori mano: verso il 600 il numero dei cristiani della Chiesa latina, su di una popola­zione complessiva di ca. 10 milioni, oscillava fra i 7-8 milioni.

Tra i problemi politici più importanti, con riflessi anche nel campo ecclesia­stico che papa Gregorio, vero console di Dio -espressione che si leggeva nell'epi­taffio in S. Pietro- dovette af­frontare, emergono i rap­porti di Roma con Bisanzio e quelli con i Longobardi.

Delicate e difficili furono le relazioni con l'imperatore d'O­riente. Papa Gregorio, di fronte agli imperatori di Costantinopoli, si mostrò ossequioso nelle forme esterne: Roma stava sotto l'impero; di fatto però la città e il territorio ave­vano ormai una certa auto­nomia, che costituisce un importante prece­dente del potere tem­porale; autonomia che insieme ai beni im­mobili, i cosiddetti "pa­trimo­nia S. Petri", rappresentano le basi dello Stato pontificio e della potenza politica dei papi in Italia nei secoli suc­cessivi. In que­sto contesto molte funzioni dell'auto­rità civile passarono al papa che, oltre al vettovagliamento della città -estensione della sua opera caritativa- provvide anche a dare il soldo ai soldati. S. Gregorio si oppose invece apertamente all'imperatore Maurizio (582-601) quando questi emanò, nel 592, una legge che proibiva ai cu­riali e agli uomini d'arme di farsi monaci e per i primi pure di entrare nel clero.

Di fronte a Giovanni il Digiunatore (Nesteute), patriarca di Costantinopoli, ebbe a sostenere una lunga controver­sia, perché negli atti di un concilio tenuto nel 587 a Costantinopoli, sotto la sua presidenza, si sottoscrisse con il titolo di patriarca ecume­nico, tradotto in occidente come universale -in realtà significava solo patriarca dell'Impero- giudi­cato, pertanto, come "titolo ne­fando e arrogante".

Questo ter­mine, che trova il suo fondamento nel decreto emesso da Giustiniano nel 545, in forza del quale il vescovo di Costantinopoli -primate d'O­riente- aveva il secondo posto, dopo quello del ve­scovo di Roma mentre aveva la precedenza su tutti gli altri ve­scovi. In seguito l'appella­tivo di ecumenico ebbe un'interpretazione or­todossa -significando il patriarca dell'Impero d'Oriente- anche se lesiva del prestigio del papa in oriente. S. Gregorio, da parte sua, per umiltà, volle chiamarsi servus servo­rum Dei, espressione che non è in polemica con la precedente, ma, già in uso prima del pon­tifi­cato, è uno sviluppo della formula mo­nastica, servus Dei.

Quanto ai Longobardi, che l'impero conside­rava come pre­doni da sotto­mettere o sterminare, Gregorio li ri­tenne invece un popolo da convertire e por­tare possibilmente all’’amicizia con l'im­pero al fine di stabilire in Italia una pace fondata sulla tranquilla convivenza di Italiani, Imperiali e Longobardi.

Nel frat­tempo cercò però di tener lontani da Roma i Longobardi che dal territorio del Ducato di Spoleto -giungeva fino alla Sabina- fa­cevano incursioni, mi­nacciandone l'indipendenza e per ben due volte li respinse: nel 592 respinse Ariulfo, duca di Spoleto e l'anno successivo Agilulfo, re dei longobardi che avanzò verso Roma e la strinse di asse­dio. Il papa, senza nessun aiuto da parte dell'esarca di Ravenna, allontanò allora il pericolo trattando con il re e dandogli un forte tributo (500 libbre d'oro). Triplice l'azione di papa Gregorio verso il Longobardi: impedire che co­storo estendessero le conquiste in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all'influsso degli scismatici dei Tre Capitoli e con­fermarla nella fede cattolica. Condurre Longobardi ed imperiali ad una intesa che da una parte assicurasse la pace all'Ita­lia e, dall'altra, per­mettesse di svolgere una fruttuosa opera missionaria tra i Longobardi. La sua azione, nella questione longobarda, fu anche importante per la doppia funzione che egli svolse: di mediatore tra i due contendenti e di rappre­sentante degli interessi di Roma e dell'Italia, "la sua terra", sia dinanzi ai Longobardi invasori, sia dinanzi ai dominatori Bizantini che si mo­stravano ogni giorno di più incapaci di difen­derla.

I suoi scritti

In mezzo a tanti pericoli s. Gregorio svolse una singolare at­tività letteraria. Un complesso di scritti che saranno tra i più letti nei secoli posteriori. La dottrina di s. Gregorio, dove sono già con­tenuti quasi tutti gli elementi di cui avranno bisogno i cristiani del Medioevo occi­dentale, è lo specchio della sua vita. Egli non è un in­tellettuale che si compiace di speculazioni, è piuttosto orientato verso la pratica e tutto il suo insegnamento è caratterizzato dalla moderazione. Merito di Gregorio è quello di aver trasmesso al Medio Evo non i testi classici -come Cassiodoro- ma l'eredità classica, adattata però alle nuove necessità dell'e­poca. Più che i testi Gregoro salvò lo spirito della cultura classica.

Quando era ancora a Costantinopoli Gregorio iniziò a scri­vere i Moralia, un'esposizione del libro di Giobbe, che ter­minò da papa. Vi sono raccolte confe­renze fatte ai monaci che da Roma aveva portato con sé a Costantinopoli ed è la più lunga delle sue opere. Gregorio interpreta il libro di Giobbe secondo i tre sensi: letterale, alle­gorico e morale, però con una certa libertà, così che talvolta si ferma su tutti e tre, qualche altra su quello allegorico, talaltra sul morale. L'interpretazione allegorica é troppo minuta e spesso ri­cercata e artifi­ciale, tal­volta persino arbitraria. Il pregio dell'opera sta negli insegna­menti morali che Gregorio sa trarre ab­bondanti at­traverso la spiega­zione mistica del sacro testo.

A commento dei te­sti della Bibbia com­pose inoltre XXII Omelie su Ezechiele e su 40 pericopi evangeliche che si leggevano nella messa; un com­mento sul primo Libro dei Re e sul Cantico dei cantici. La maggior parte di queste omelie furono tenute al popolo e si adattano all'uditorio. Speciale men­zione, l'omelia XVII indi­riz­zata non al popolo, ma ai vescovi adunati nella basilica latera­nense, sui doveri del predica­tore della parola di Dio e sulla cattiva con­dotta dei sacerdoti del tempo.

Ai vescovi, nella persona di uno di essi, dedicò il Liber regu­lae pastoralis, dove si insegna il regimen, cioé l'arte di go­vernare le anime (ars est artium regi­men animarum). Il libro, una delle opere migliori e più organiche, fu scritto nei primi anni del suo pontifi­cato. Era tradizione che i neo-eletti patriarchi inviassero ai titolari delle altre sedi patriarcali, sotto forma di lettera sinodica, la loro profes­sione di fede e di adesione ai concili universali. Gregorio annunci:ò, sin dal 590, a Giovanni di Costantinopoli l'invio di una lettera, la Regola dei pastori che poi però dedicò ad un vescovo Giovanni, probabilmente l'arcivescovo di Ravenna.

Diviso in quattro libri, nella prima parte Gregorio tratta della sublimità e delle diffi­coltà dell'ufficio pastorale. Nella seconda tratta della condotta del pa­store, ossia delle virtù che deve possedere o sforzarsi di ac­quistare e dei difetti che deve evitare. Nella terza parte poi, che è la più lunga e la più importante, mostra come il pastore deve pre­dicare e come deve ammonire le diverse categorie di fe­deli. Nell'ultima parte richiama il vescovo alla riflessione e al rinnova­mento quo­tidiano del proprio in­terno affinché l'esercizio del sacro ministero non lo porti alla vana compiacenza di sé stesso e alla su­perbia. Il libro ebbe larga diffusione in tutte le Chiese d'Occidente e Atanasio di Antiochia ne fece una tra­dizione in greco.

Grande successo ebbe anche l'altra opera scritta da Gregorio nel 593-4, Dialogi libri IV o De vita et miraculis patrum italicorum, di ca­rattere popolare. I Dialogi -così detti perché scritti sotto forma di un dialogo tra Gregorio stesso e Pietro, l'amico diacono già monaco a S. Andrea e poi rettore dei patrimoni della Sicilia e della Campania- non sono un'opera storica, ma appartengono a un ge­nere letterario detto aretalogico (virtutes), per il quale bisogna ri­salire alla lettera­tura delle Vitae Patruum o alla stessa vita di s. Antonio scritta da s. Atanasio.

Se in effetti l'autore ha fatto ricorso a informatori veri e propri, il suo inte­resse è però rivolto alla de­scrizione dei signa e delle virtutes al fine di testimo­niare l'eccezio­nale fervore di quei monaci. Suo intento è quello di rivendicare all'I­talia il fervore ascetico universalmente riconosciuto ai monaci orientali.

La scena si apre in un giardino romano, dove Gregorio si era ritirato, rat­tristato di dover spendere il suo tempo in tante cure mondane e non potersi dedi­care tutto alla preghiera, nella quiete del monastero, come tanti santi uomini che, vivendo appar­tati dai rumori del mondo, raggiungono la più alta perfezione. E poiché Pietro non capisce a quali uomini Gregorio alluda, ed anzi afferma che se in Italia vi furono uomini buoni, non vi furono però dei santi insigniti di virtù straordinarie e di opere miracolose, Gregorio risponde che l'I­talia, anche nei tempi recenti, ha cono­sciuto tanti santi autentici e li passa in rassegna in quattro libri dove descrive il potere taumaturgico degli Italici oppressi: fatti meravigliosi e strabilianti dove spicca il fer­vore spirituale dei mo­naci. Fu questo diacono Pietro a vedere una colomba -simbolo dello Sprito Santo- porsi accanto all'orecchio del pontefice Gregorio, intento a dettare le sue lettere; da qui l'attributo iconografico che costantemente accompagna la sua immagine.

L'opera, maturata nell'ambiente monastico, da cui Gregorio proveniva, sono il frutto della scoperta di un largo fi­lone di tauma­turgia insospettata che ir­radia dalla varie periferie, che Gregorio chiama loci minores, dove appunto si erano rifugiati coloro che, a partire dal 575-576, erano scappati dai Longobardi. Questi fug­gia­schi presentano gli invasori a fosche tinte: sono distruttori di chiese, di monasteri e delle stesse antiche e care tradizioni. Unico argine alla prepotenza barbara è l'intervento taumaturgico di Dio, dei vescovi e degli uomini di Dio (viri Dei cioè i monaci), vero ba­luardo contro gli invasori. Emblematico l'esempio di Cassio, ve­scovo di Narni, cui Totila, dopo averlo deriso, va ad inchinarsi per­ché il suo braccio destro sia li­berato dal demonio. Il testo ci offre dettagli unici sui centri monastici del Lazio, della Campania della provincia Valeria e dell'Umbria. Caratteristica precipua di molti personaggi è la simplicitas: scarsa do­mestichezza con la cultura scritta, stretta promiscuità con il mondo popolare, specie rurale. Sono caratterizzati come simplices: l'abate Eleuterio di Spoleto, l'a­bate Stefano di Rieti, il prete Amanzio di Città di Castello, l'abate Spes di Campi e lo stesso s. Benedetto da Norcia. In al­cuni monaci c'è una tendenza all'eccessiva ilarità e buonumore. Alcuni vogliono morire in piedi, sostenuti dai monaci, così il pa­triarca Benedetto e Spes abate di Campi: un gesto rituale di grande portata an­tropolo­gica (così, ad esempio, volle morire l'imperatore Vespasiano: Imperatorem ait: stantem mori oportere).

Molti di questi monaci, rite­nuti depositari di poteri superiori, erano stati ri­chiesti dai fe­deli come intercessori. Emblematico il caso del prete Amanzio che pre­senta tutte le caratteristiche del buon serparo. Di conte­nuto vicino al folclore, sono anche i miracoli di Bonifacio vescovo di Ferentis (Ferentum) il quale mol­tiplica il vino e scongiura sui bru­chi: "io vi scongiuro che vi allon­taniate di qua e cessiate di man­giare que­st'erba". Ed ecco che i bruchi se n'andarono tutti quanti e in tutto l'orto non se ne vide più neppure uno. Ed è nel clima della simplici­tas che va ambientata l'amicizia di al­cuni monaci con gli ani­mali ammansiti al punto di osservare spontane­amente i diversi tipi di orario mo­nastico, nelle differenti sta­gioni. Così Fiorenzo di Campi, in Valnerina, riuscì ad addomesticare un orso e i monaci confra­telli, che per invidia avevano deciso di uccidere l'orso, fu­rono pu­niti con il castigo della lebbra.

A questo ambiente tauma­tur­gico -dove il miracolo ha lo scopo di confer­mare alcune verità di fede, come la sopravvivenza delle anime dopo morte, le pene che esse soffrono nel purgatorio- si contrappone uno scadimento di qualità del clero e nella con­dotta morale e nella preparazione culturale; di conseguenza vita pasto­rale e amministrazione dei sacramenti nella provincia Valeria do­vettero essere notevolmente degradate; da qui l'urgenza della for­mazione del clero.

La prima edi­zione delle opere di Gregorio fu condotta dai padri Maurini, sotto la guida di D. Sammartanus (De Sainte Marthe) e uscì a Parigi 1705. Fu quindi migliorata dal Galliccioli (Venezia 1768-76) e riprodotta nella Patrologia Latina (PL LXXV-LXXIX). Edizioni critiche recenti in MGH; in Corpus Christianorum, Series Latina (CchrL); e anche nella collana Sources chrétiennes. Un utile strumento di lavoro sugli scritti di s. Gregorio è la concor­danza verbale, intitolata Thesaurus Gregorii Magni, Turnhout 1984.

La figura di Gregorio Magno

L'azione di papa Gregorio, quale appare soprattutto dalle Let­tere, ma an­che dai Dialoghi, fu rivolta verso il totale ristabilimento della di­sciplina ecclesia­stica e il consolidamento progressivo dei legami delle diocesi italiane con Roma.

Si tratta di un processo che continuerà e si compirà lungo il secolo VII con la conversione dei Longobardi e la rie­sumazione di molte sedi soppresse, con la con­seguente riorganizzazione disciplinare. Quello delle sedi episcopali vacanti sarà uno dei problemi più cari a papa Gregorio, insieme alla conversione dei Longobardi d'Ita­lia e all'iniziativa missionaria presso gli Angli, dove parteciparono mo­naci dalle spiccate espe­rienze taumaturgiche.

Con papa Gregorio c'è una ripresa, non una restaurazione, poiché nel giro di neppure trenta anni si era matu­rata una situa­zione sostanzialmente nuova non solo sul piano poli­tico, ma anche ecclesiastico e culturale. Nulla avrebbe ormai po­tuto rimanere come prima. Il genio di Gregorio è stato quello di aver capito ed accettato queste nuove realtà -i longobardi- e di averne estratto il senso ecclesiale proponendo, con i Dialoghi e le Omelie, una nuova forma di cultura religiosa. Non un imbastardimento della grande teologia patristica, ma il tentativo riuscito di permeare il mondo divenuto barbaro: un geniale adattarsi alla nuova cultura, creando una nuova forma di cultura religiosa. Era ormai finito il cri­stianesimo della Roma imperiale e con Gregorio cominciava quello dell'Italia, o meglio del­l'Europa Medievale.

Testimoni dell'eccezio­nale attività di papa Gregorio sono le sue importanti Lettere rac­colte nel Registrum papae, originaria­mente in 14 volumi, distri­buiti se­condo gli anni del pontifi­cato. A noi è rimasto un notevole gruppo: 848 lettere in tre collezioni. Nelle lettere dei primi tempi Gregorio lamenta la rinuncia alla vita con­templativa; però, oltre a applicarsi con dedizione al nuovo uf­ficio, egli seppe ben presto rag­giungere un perfetto equilibrio tra vita attiva e vita con­templativa, un modello di vita che lui stesso descrisse nella Regola pa­storale. Il buon pastore -egli scrive- nelle sue occupazioni esteriori non trascura la solle­citudine per le cose dell'anima e per questa medesima sollecitu­dine delle cose dell'a­nima non abban­dona la cura degli affari esterni (Reg. past. II, 1). Sin dal principio egli ebbe chiara co­scienza dei doveri del vescovo che ricapitola nella lettera sinodica inviata, nel febbraio 591, ai quattro patriarchi orientali (Ep. I, 24) e che poi espone nella Regola pa­storale.

Pastore e maestro, Gregorio scrisse per tutti: dalla gente del po­polo ai mo­naci, al clero. La sua dottrina ha soprat­tutto un carattere pastorale. Costante pre­occu­pazione, quella di adeguarsi a chi l'ascolta. E a tutti Gregorio pro­pone uno stesso ri­torno a Dio, attraverso il cam­mino di due stati di vita: quella attiva, ordi­nata so­prattutto alla salvezza del prossimo; e quella contemplativa, ordinata alla salvezza personale. Due stati di vita conciliabili in una medesima persona; anzi, nella mag­gio­ranza dei casi possono e debbono essere compresenti e l'equilibrio si realizza sotto forma di un esercizio alternato dei due modi di vi­vere.

Così come l'attività letteraria, anche l'opera di Gregorio in campo li­turgico fu ispirata dal più puro zelo pastorale. Vi è un tipo di Sacramentario, più recente del Gelasiano che, con il suo nome (Incipit liber Sacramentorum de circulo anni exposi­tus, a s. Gregorio papa Romano editus). Compilato tra il 592-95, non ci è pervenuto l'originale, ma copia del Sacramentario che papa Adriano I inviò verso il 785-6 a Carlo Magno. Su detta copia sono stati esemplari due gruppi di mano­scritti: 1 - codice di Padova D 47 (sec. IX); codice glagolitico di Kiew (sec. IX, mancano le ferie V di quaresima introdotte da Gregorio II); 2 - codice di Cambrai (Bil. Mun., ms. 159) compilato nell'812; ms. mutilo di Montecassino (vi sono ag­giunte fatte al sacramentario dal pontificato di Gregorio II a tutto il sec. IX).

In origine quel messale dovette es­sere usato quando il papa celebrava la Messa solenne nella basilica late­ranense, o quando interveniva alle Stazioni. Di certo il prestigio del nome di Gregorio ne favorì la diffusione con i dovuti adat­tamenti.

Gregorio compilò pure un Antifonario che comprendeva canti da ese­guire durante la messa. A tal fine riorganizzò la schola cantorum ro­mana, alla quale donò delle terre e due case perché servissero di dota­zione della schola e di abita­zione per la vita comune. La tradizione che Gregorio sia stato anche l'organizza­tore del canto gregoriano risale a Giovanni Diacono e al Venerabile Beda.

Espansione missionaria

L'azione e la carità di papa Gregorio si estesero anche fuori d'Ita­lia. Un suo primo merito è quello di aver contribuito alla con­versione dei popoli germanici. Egli cercò in primo luogo di mettere in più stretta relazione con la Chiesa e col papato i Visigoti e i Franchi, ambedue popoli germanici, fra di loro in continuo contrasto.

I Visigoti, che provenivano dalle rive del Danubio, a setten­trione del Mar Nero, dove si erano convertiti all'arianesimo, con­quistarono la Gallia meridionale e la Spagna nel 419. A lungo rimasero ariani finché il re degli Ispani Leovigildo, che aveva preso il potere nel 568, si ammalò. Invitato dai familiari -in particolare dal figlio Ermenegildo e da Ingunde, cattolica franca, moglie di quest’ultimo- a far penitenza e a pregare con fede, si convertì al cattolicesimo, ma di lì a poco morì. Gli successe Recaredo (586-601) che, insieme a sua moglie Badda si convertirono al cattolicesimo; seguì poi la conversione in massa di tutti i visigoti. Il passo fu sigillato dal III Concilio di Toledo (589). Papa Gregorio ebbe relazioni con la Spagna, da poco con­vertita al cattolicesimo, svolgendo un'im­portante corrispondenza con il re visigoto Recaredo e con Leandro, arcivescovo di Siviglia, cui mandò il pal­lio.

I Franchi, provenienti dalla Pannonia e guidati da Clodoveo (481-511), conquistarono la Gallia fino alla Loira e più tardi incal­zarono i Visigoti anche nella parte meridionale fino alla Garonna. I Franchi ini­zialmente avevano accolto il cri­stianesimo alla spiccio­lata, ma ben pre­sto il popolo si dovette convertire in massa alla nuova religione nella forma cattolica. La decisione fu provocata dalla risolu­zione di Clodoveo, sposato con Clotilde, una principessa cattolica della casa re­ale di Borgogna. Questa conversione al catto­licesimo ebbe una conse­guenza partico­lare: tutti gli altri principi germanici erano ancora pagani o ariani; da Roma si guardò ai Franchi come a un possibile protettore della fede ortodossa.

Gregorio intervenne presso la corte dei Franchi, rimproverando l'abuso della simonia e cer­cando di riformare le tristi condizioni della Chiesa franca, servendosi dei sinodi e dei vescovi e, in partico­lare, dando all'arcivescovo di Arles il titolo e l'ufficio di suo vi­cario per le Gallie.

Gregorio diede soprattutto l'impulso decisivo all'azione mis­sio­naria tra gli Anglo-Sassoni di Britannia.

Al tempo di Gregorio Magno l'Inghilterra era divisa tra i Brettoni, cristiani da tempo i quali durante le invasioni barbariche si erano ritirati nella zona owest dell'Isola e gli Anglosassoni, gli invasori che erano dei pagani. L’azione missionaria di Gregorio si rivolse a quest’ultimi e lo fece servendosi di monaci.

La mis­sione ebbe inizio nel 596, con l'invio di Agostino, abate di Roma e di 40 compa­gni monaci, per la conquista alla fede del­l'ultimo gruppo di popoli ancora pagani immigrati nelle antiche pro­vince occidentali dell'impero. Il papa comunicò il fatto al Metropolita di Arles, invitandolo ad aiutare Agostino e chiedendogli anche di accogliere il prete Candido che aveva nominato aministratore dei beni terrieri che la Chiesa aveva in Francia. Agostino, giunto a Kent, trovò Ethelbert, che era bretvaldo (capo dei re) dell'eptarchia anglosassone, già ben disposto verso il cri­stianesimo per merito di sua moglie Berta, una principessa franca.

Per andare a colloquio con il bretvaldo si mosse processionalmente, portando come vessilli una croce d’argento e l’icona del Salvatore e cantando litanie, per impetrare la salvezza dei popoli presso i quali egli, insieme ai suoi monaci, era venuto. Autorizzati a svolgere un’azione missionaria, i monaci cominciarono a vivere all’apostolica , vegliando, digiunando , predicando: parecchi credettero e si fecero battezzare. Lo stesso Ethelbert, che aveva acconsentito ai missionari di predicare, nel 597 ricevette il battesimo insieme con migliaia di suoi connazionali. Agostino si recò quindi ad Arles dove fu consacrato vescovo da Eterio, primate della Gallia. Dopo di che informò il papa cui inviò anche un questionario sul quale chiedeva consiglio. Alle nove domande papa Gregorio rispose, nel 601, con il Libellum responsorium, riferito dallo scrittore Beda, lo stesso che narra lo svolgimento della missione dei monaci romani in Inghilterra. Vi si legge -tra l’altro- in risposta alla diversità delle liturgie , che avevano colpito Agostino, abituato all’uso romano: “non devi preferire una cosa in ragione del luogo, ma i luoghi sono in ragione delle cose che vi sono; scegli da ogni singola Chiesa gli usi retti, pii e fa sì che diventino consuetudine”.

Le di­rettive di papa Gregorio erano che l'opera missionaria doveva svol­gersi col massimo adattamento possibile alla cultura di quel popolo autoriz­zando, fra l'altro, la trasformazione di templi in chiese e di feste pagane in cristiane.

Costatati i successi di Agostino, il papa inviò in Inghilterra altri missionari (Mellito, Giusto e altri) e or­dinò ad Agostino, che aveva insignito del pallio arcivescovile con la facoltà quindi di ordinare vescovi, di fondare due provincie ec­clesiastiche, ciascuna con dodici vescovadi suffraga­nei (601). Le sedi metropoli­tane dovevano essere i ve­sco­vadi britannici già esistenti di Londra, per l'Inghil­terra meridionale e York, per l'Inghilterra settentrionale. Tuttavia al posto della prima su­bentrò Canterbury, capitale del Kent, dove la missione aveva mosso i primi passi e Agostino aveva stabilito la propria sede ve­scovile.

Alla morte di Gregorio il re­gno di Kent era in gran parte cristiano e la gerarchia era stata stabilita. Quindi nel giro di cinquanta anni, superati i ritorni of­fensivi del pa­ganesimo, fu portata a termine l'organizzazione di quella Chiesa il cui fervore é testimoniato dalla fio­ritura di un gran numero di monasteri maschili e femminili, ordinati se­condo la re­gola bene­dettina e dalla pratica dei pellegrinaggi ad limina aposto­lorum, con il versamento di un'offerta in denaro, l'obolo di s. Pietro (denarius s. Petri). Va però anche aggiunto che in Inghilterra c’era una terza provincia, quella dei Brettoni, cristiani da lungo tempo, non conquistati dagli invasori e gelosi della propria libertà.

Il monachesimo irlandese

Quattro anni prima dell’invio di s. Agostino, come mis­sionario fra gli Anglosassoni, ,un gruppo di monaci irlandesi dalla loro isola, si ro­vesciarono prima in Inghilterra, poi sul continente, percorrendolo come pe­ni­tenti e apostoli. L'Irlanda, dove il cristiane­simo -teste Tertulliano- era penetrato già nel II secolo, agli inizi del V secolo fu sconvolta dalle invasioni delle popo­lazioni germaniche, Iuti, Angli e Sassoni che se ne impadronirono. La conversione degli invasori era stata opera di s. Patrizio (+493), un bre­tone che, eletto vescovo, si recò nel 457 nell'isola dove, con l'aiuto di missionari provenienti dal continente, in mancanza di città e di centri -essendo il popolo rag­gruppato in clan che formavano delle tribù- or­ganizzò comunità cri­stiane stabili in centri ecclesiastici, trasformatisi in seguito in monasteri doppi, presieduti dal vescovo.

L'azione missionaria ed evangelizzatrice di s. Patrizio fu pro­fonda e diede un'impronta al cristianesimo irlandese che assunse caratteristiche peculiari. L'ordinamento gerarchico prevedeva la sottomissione del vescovo e del clero secolare agli abati. I monasteri erano centri di cultura e di spiritualità e produssero un forte movimento di irradiazione che si coniugò con la peregrinatio religiosa, cioè con l'abbandono, in nome di Dio, della propria terra. Al principio del VI secolo ci fu un nuovo im­pulso e un grande sviluppo della vita monastica e l'Irlanda, in breve, si popolò di monasteri maschili e femminili: vere scuole di asceti­smo e di santità, tanto da meritare il titolo di Insula sanctorum. All'interno dei mona­steri si coltivava lo studio delle scienze sacre (il monaco irlandese è sempre rappre­sentato con la car­tella in mano), si trascrivevano codici (nella pro­pria scrittura scottica) e si compo­nevano grammatiche, inni reli­giosi, scritti esegetici. Mentre, tra i fedeli, i monaci diffusero il culto dei santi. In particolare si sviluppò la devozione ai santi ro­mani, spe­cialmente agli apostoli Pietro e Paolo, di cui s. Patrizio portò presunte reliquie.

Questo modello celtico fu esportato sul continente ad opera di due grandi missionari -Columba il vecchio (+597) e s. Colombano, o Columba il giovane (543-615) e interessò il mondo anglosassone e l'Italia longobarda.

Il più grande centro culturale dell'Irlanda era il mona­stero di Bangor, fondato da s. Comgall nel 559. Da questo mona­stero partì nel 591, insieme a 12 compagni, s. Colombano, un se­vero riformatore ul­trasettantenne, rigido asceta e predicatore di penitenza.

Egli, dopo aver pellegrinato e fondato monasteri nella Gallia, fra cui Luxeuil, in Bretagna, dove stabilì la sua residenza ab­baziale, attra­versò le Alpi e si stabilì in una zona boscosa dell'Ap­pennino ligure, lungo la valle della Trebbia dove con il consenso di Agilulfo, re dei Longobardi, a quel tempo ancora ariano, e di sua moglie Teodolinda, nel 612 fondò il mona­stero di Bobbio. Si trattò di un'importante migrazione monastica avvenuta in un territorio sog­getto al re longobardo Agilulfo. E i longobardi erano ariani o pagani.

L'abbazia di Bobbio nel giro di pochi anni, dopo aver ab­bandonato gli au­steri regolamenti di Colombano, che imponeva un rigore straordinario nell'eser­cizio della penitenza -perfino piccole manchevolezze venivano punite con pene corporali- assunse la re­gola benedettina, meno rigida e più adattabile alle situa­zioni va­rie.

Fra le norme caratteri­stiche della regola che va sotto il nome di s. Colombano -una raccolta di principi ascetici e spirituali- oggetto poi di contrasto quando i monaci bretoni e scotti vennero a con­tato con il monachesimo benedet­tino del continente furono: la ton­sura celtica (rasatura della parte anteriore dei ca­pelli che contra­stava con la tonsura Petri che lasciava una specie di co­rona); par­ti­colarità nell'amministrazione del battesimo; consacra­zione epi­sco­pale fatta da un solo vescovo, senza i due ve­scovi con­sacranti; un computo della pasqua assai im­perfetto, per cui spesso non coinci­deva con quella comune.

L'abbazia di Bobbio promosse opere di dissoda­mento nei territori pa­dani dove i monaci godevano della li­bera navigazione e di ampie im­munità per i loro mercati e soprat­tutto svolse un opera di cri­stianizza­zione attraverso le numerose dipen­denze: in que­st'epoca si costruiscono in Lombardia numerose chiese rurali, di preferenza nei pressi dei distretti, sedi delle adu­nate militari. Si assiste così ad un inizio di con­versione in seno ai nuclei mili­tari longobardi con la costruzione di chiese battesi­mali. Notevole anche la fun­zione culturale di questa abbazia, divenuta un centro di irradiazione culturale sia di opere della letteratura cri­stiana antica, sia di quella classica. Bobbio con­tribuì così in modo determinante al­l'incivilimento del nuovo mondo italo-barbarico e alla formazione della civiltà dell'Occi­dente.

A s. Colombano risale, almeno in buona parte, un codice penitenziale (Poenitentiae) che ebbe notevole risonanza in quanto ispirò per molti secoli la disciplina della penitenza basata sull'arbitrato e la composizione, creando un sistema tariffario di rigida corrispondenza tra il peccato e la pena. Nacquero così i libri penitenziali, per l'amministrazione della penitenza pubblica o canonica: cataloghi di pec­cati e di pene espiatorie destinati a guidare i confessori nell'eser­cizio del loro ministero.

I libri penitenziali, la cui produ­zione va dal VI all'XI se­colo -il più famoso nel M. E. è il penitenziale di Burcardo di Worms scritto tra il 1008 e il 1012- sono un attestato inte­res­sante non solo dell'azione pastorale della Chiesa, ma anche della storia del co­stume. Per capirne l'im­portanza, basti pensare al mo­vimento peniten­ziale che ca­ratterizzò la spiritualità medievale. Per il ruolo che la disciplina pe­niten­ziale rivestì sia nell'or­dinamento ecclesiale, sia in quello so­ciale, gli uomini del Medioevo sono stati definiti "uomini della pe­nitenza".

Oltre a Bobbio contribuirono a riorganizzare la vita cattolica tra i Longobardi anche i monaci orientali chiamati dai pontefici verso la metà del sec. VII.

In seguito ci fu una fioritura di mona­steri maschili e femminili, quasi sempre preceduta dalla presenza di un anacoreta, spesso dal nome orientale, impegnati nell'evange­lizzazione dei pagani e nell'assistenza ai pellegrini.

Una conferma degli sforzi missionari compiuti nell’Italia longobarda durante il sec. VII è la dif­fusione del culto della Vergine, mentre il titolo di Sancta Mater Ecclesia di alcune chiese toscane rimanda alla politica di unire strettamente a Roma quelle diocesi, dove si andava riorga­nizzando la vita ecclesiastica. Furono gli stessi Longobardi a promuovere nelle loro terre la fioritura mo­nastica; lo fecero tut­tavia riservandosi quasi sempre la protezione sui beni, da loro as­segnati "pro remedio animae"; men­tre l'organismo veniva sottopo­sto all'auto­rità del vescovo.

Fra le abbazie imperiali, ruolo importante fu quello svolto dal monastero di Farfa, istituito nel VI secolo dal vescovo Lorenzo, re­duce dall'O­riente e ricostruito da Tommaso di Morienna con mo­naci franchi dei quali di­venne primo abate. Il monastero quasi su­bito assunse una funzione intermedia fra il papa e il duchi di Spoleto di cui go­dettero la protezione e dai quali ot­tennero un va­sto patrimonio. I vincoli di Farfa con la corte di Pavia fe­cero poi sì che le nu­merose dipendenze del monastero svolgessero non solo funzioni di carat­tere reli­gioso, proprie di un centro monastico, ma anche una fun­zione prettamente poli­tica e militare, di estrema im­por­tanza nelle stesse competizioni tra i Longobardi di Spoleto e quelli di Pavia.

Fu invece la Santa Sede a fondare S. Vincenzo al Volturno, al limitare delle giurisdizioni tra i Longobardi di Spoleto e quelli di Benevento, preoccupata com'era del continuo avanzamento dei Longobardi nella campagna romana. Il monastero fu distrutto, in­sieme a quello di Montecassino, nel sec. IX ad opera dei Saraceni.

In­dubbiamente il monastero italiano più famoso è Montecassino: re­staurato nel 717 da papa Gregorio II (715-731), in breve dive­nne un centro monastico al quale si guardò da tutta Europa per appre­dervi il vero spirito di s. Benedetto. Da questo ce­nobio di Montecassino papa Gregorio III (731-741) chiamò l'anglo­sas­sone Willibaldo per affiancarlo a san Bonifacio nell'o­pera di evangelizzazione della Germania.