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Scisma dei tre capitoli e Costantinopolitano II (553)


Il V concilio -II di Costantinopoli- celebrato nel 553, ai tempi di papa Vigilio, fu convocato dall'imperatore Giustiniano per conquistarsi la simpatia dei monofisiti, mediante la condanna di tre scritti (condanna dei Tre Capitoli) di altrettanti teologi della scuola antiochena: Teodoro di Mopsuestia (Contra impium Apollinarium libri III), Teodoreto di Cirro (lettera contro Cirillo d'Alessandria) e Iba di Edessa (lettera al persiano Maris). Una condanna giusta, ma sospetta, perché gli incriminati -che peraltro si erano riconciliati con la Chiesa- erano morti da oltre centoventi anni.

L'imperatore Giustiniano in difesa dell'ortodossia

Era accaduto che nella Grande Laura a Mars Saba, a oriente di Gerusalemme alcuni monaci andavano diffondendo dottrine origeniste, quali la preesistenza e la trasmigrazione delle anime e la riparazione fi­nale. San Saba, il vecchio abate, vi si oppose fortemente quindi si recò a Costantinopoli per chiedere l'espulsione dei monaci origenisti.

Dopo la sua morte (532) la lotta si fece più accanita e due monaci origeni­sti riuscirono a farsi nominare vescovi dalla corte imperiale: Domiziano ad Ancira e Teodoro Aschida a Cesarea di Cappadocia.

Gelasio, successore di san Saba nella Grande Laura, denunciò l'e­resia al rappresentante del papa, presente al Concilio di Gaza, del 539. Questi, tornato a Costantinopoli, sollecitò l'imperatore Giustiniano (527-565) ad inter­venire contro l'origenismo.

Giustiniano, nel 543, scrisse un Trattato contro gli errori di Origene, terminante con dieci anatemismi e lo pubblicò sotto forma di Editto.

Questo Editto fu sottoscritto anche da Teodoro Aschida, il quale però si prese una ri­vincita sollevando presso Giustiniano un'altra questione: la condanna degli scritti di tre au­tori, legati a Nestorio (Teodoro di Mopsuestia, mae­stro di Nestorio; Teodoreto di Cirro, suo amico; Iba di Edessa).

É vero che Teodoro era morto in comunione con la Chiesa e Teodoreto e Iba erano stati riabili­tati dal Concilio di Calcedonia (451); ma i monofisiti insistevano perché i tre fossero condan­nati, considerandoli degli avversari di s. Cirillo e fa­cendo ve­dere che costituivano l'ostacolo alla loro unione.

Convinto di questi ar­go­menti, Giustiniano, nel 544, pubblicò un altro Editto, co­sti­tuito da Tre anatemi contro i tre autori incriminati: onde il nome dato al­l'editto di Chefàlaia -Capitula in latino- nome che poi designò il con­tenuto degli anatemastismi stessi. Nell'editto dei Tre Capitoli si condan­nava:

La condanna, presa in sé, era giusta, in quanto quegli scritti non erano im­muni da errori; ma le circostanze la rendevano so­spetta: ve­niva infatti riesumata una questione vecchia di circa cento venti anni e ormai obliterata, come ebbe a scrivere il ve­scovo Facondo.

La reazione romana

Questa condanna, in Oriente fu accolta con esitazione, poi­ché non portava la pace sperata. In Occidente ci fu invece una violenta re­azione perché la con­danna sembrava andasse contro il Concilio di Calcedonia (451), cui gli occidentali erano molto attac­cati.

Papa Vigilio (537-555), dopo essere rimasto a lungo incerto di fronte a quella con­danna, l'11 aprile 548 emise la propria sentenza che prese il nome di Iudicatum con il quale condannò Teodoro, gli scritti di Teodoreto e la lettera di Iba, ma allo stesso tempo mani­festò la sua piena adesione al Concilio di Calcedonia.

Lo iudicatum fu male accolto dai vescovi del­l'occidente e quelli del­l'Illirico, delle Gallie e dell'Africa giunsero a rompere la comunione con il papa fino a quando non avesse fatto peni­tenza. Di fronte all'opposizione suscitata dal suo Iudicatum Vigilio lo ritirò (550), inducendo Giustiniano a convocare un con­cilio ecumenico che illuminasse gli occidentali sulla questione; dovette però pro­mettere che non avrebbe fatto nulla contro i Tre Capitoli.

Il concilio di Costantinopoli II (553)

Il concilio, convocato a Costantinopoli il 5 maggio 553, con­dannò Teodoro, Teodoreto e Iba, mentre il papa il 14 maggio 553 inviò all'im­peratore una sua di­chiara­zione , sui Tre Capitoli, firmata da 16 vescovi e che prese il nome di Constitutum Vigilii papae de tribus capitulis. Il Constitutum condannava gli er­rori di Teodoro e di Teodoreto, ma non le persone, per il principio canonico che non si condannava una per­sona morta nella comunione ecclesia­stica; mentre per Iba accettava la giustificazione presentata al concilio di Calcedonia.

Giustiniano consi­derò il Constitutum un volta­faccia del papa. Perciò non volle ricono­scerlo e comunicò al concilio gli atti prece­denti di Vigilio, chiedendo che il suo nome fosse tolto dai dit­tici. E poiché non intendeva creare uno scisma, usò l'abile formula, di­cendo che Vigilio stesso si era sepa­rato dalla comunione dei ve­scovi di­fendendo quanto i Tre Capitoli ave­vano condannato; men­tre si mante­neva l'unione con la Sede apostolica. I vescovi accetta­rono l'ordine dell'impera­tore e il Concilio continuò senza più inte­ressarsi del papa e, nell'VIII e ultima ses­sione (2 giu­gno 553), pro­mulgò quattordici anate­mismi in cui condannava gli scritti di Teodoro, Teodoreto e Iba; acc­cettava però i quattro concili, com­preso Calcedonia.

Giustiniano si mise subito all'opera per far rico­noscere que­ste decisioni del concilio, sia in Oriente, sia in Occidente. E fece pressioni sullo stesso papa Vigilio che approvò il concilio, con let­tera inviata l'8 dicembre 553 a Eurichio di Costantinopoli; quindi, nel tentativo di conciliare i decreti del concilio di Calcedonia e la recente condanna, il 23 febbraio 554, a Costantinopoli, pubblicò un nuovo Constitutum in cui giustificava la condanna dei Tre Capitoli. Fatta così la pace con l'im­peratore e ricono­sciuto il concilio -che così divenne ecumenico- papa Vigilio nella pri­mavera del 555 la­sciò Costantinopoli per tornare a Roma, dopo dieci anni di assenza, ma morì in viaggio il 7 giugno a Siracusa.

Lo scisma dei Tre Capitoli

Prima di par­tire, papa Vigilio aveva ottenuto, da Giustiniano, la Pragmatica sanctio (554), che riordinava il governo d'Italia, ri­con­quistata dai bi­zantini. Tra l'altro fu riorganizzato tutto il si­stema scolastico, con il ripristino del­l'insegna­mento della gramma­tica, della retorica, della medicina e del diritto.

Le condizioni di Roma durante l'assenza del papato erano tri­stis­sime. Governava un certo Marea (+555), contrario, come tutti, alla condanna dei Tre Capitoli.

Morto Vigilio, fu mandato a Roma, affinché si eleggesse come papa, il diacono Pelagio, il quale aveva partecipato a tutti gli avvenimenti di Costantinopoli e dopo aver combattuto la con­danna, l'aveva egli pure accettata, riconcilian­dosi con l'imperatore. Ma a Roma questa scelta non fu gradita per­ché si accusava Pelagio di aver provocato la morte di Vigilio. La sua consacrazione ebbe luogo dopo dieci mesi, il 16 aprile 556 -giorno di Pasqua- e fu compiuta non dal ve­scovo di Ostia, ma da due ve­scovi, con l'assistenza di Andrea prete di Ostia, mentre il clero, i monaci e il popolo si tennero lontani dal nuovo papa. Pelagio I (556-560) seppe però riconquistarsi la fiducia, giustificandosi pub­blicamente, in S. Pietro, con una professione di fede in cui protestava la sua fedeltà agli insegnamenti dei papi precedenti, in particolare di s. Leone, come ai quattro concili ecumenici, nulla di­cendo del quinto e ag­giungendo che accettava tutto quello che essi avevano ac­cettato "so­prattutto i venerabili vescovi Teodoreto e Iba", tacendo comple­tamente su Teodoro. Quindi riallacciò le relazioni con i vescovi del regno franco, e inoltre mandò la sua professione di fede ai vescovi della Tuscia che erano giunti a non mettere il suo nome nei dittici.

Pelagio morì nel 561 e gli suc­cesse Giovanni III (561-574), cui fecero se­guito Benedetto I (574-579) e Pelagio II (579-590). In queste elezioni, come già per Pelagio I, appare come fosse invalso l'uso che l'imperatore d'Oriente con­fer­masse l'elezione del papa. Le aumentate difficoltà politiche ave­vano però atte­nuato i rapporti tra i papi e gli im­peratori di Costantinopoli per cui la conferma dell'elezione del papa veniva data non direttamente dall'impera­tore, ma dal suo rappresen­tante a Ravenna. Si accrebbero così i le­gami tra il papato e l'esarca di Ravenna, capo militare e poi anche civile dei territori italiani, rimasti ai bizantini dopo l'invasione lon­gobarda. Il Liber diurnus ci con­serva il for­mulario con cui, fino al sec. VII, i papi erano soliti co­municare con let­tera all'esarca la propria no­mina.

Nel frattempo continuava l’opposizione contro la condanna dei Tre Capitoli in Africa, nell'Italia settentrionale e nell'Illirico. I vescovi di quest'ultima regione non ave­vano voluto partecipare al concilio di Costantinopoli e poi si mantennero contrari.

Nonostante che Giustiniano avesse ri­mosso il metropolita di Salona e esiliato al­cuni vescovi dell'Illirico, la pace religiosa non fu ristabilita e i vescovi della Dalmazia continuarono nello scisma. Nell'Italia settentrio­nale accettò il concilio il metropo­lita di Ravenna, Agnello; invece non vollero accoglierlo gli altri due me­tropoliti: Vitale di Milano e Macedonio di Aquileia, i quali rifiu­tarono persino la comunione con Pelagio, perché aveva accettato il V concilio. La scissione si aggravò con l'invasione lon­gobarda dell'Italia del Nord (568), in seguito alla quale l'arcive­scovo di Milano si rifugiò a Genova e quello di Aquileia nell'Isola di Grado, dove aveva costruito una cattedrale dedi­cata a s. Eufemia, la martire del concilio di Calcedonia. L'uno e l'altro territorio erano sotto i Bizantini, ma a nulla riuscirono le insistenze dei pontefici perché rientrassero nell'unità. Così, sotto il pontificato di papa Pelagio II, lo scisma dei Tre Capitoli perdurava ancora a Milano, nella Venezia e nell'Illiria.

Milano rientrò nell'unità, grazie a s. Gregorio Magno che intervenne presso Teodolinda, regina dei Longobardi; mentre il nuovo patriarcato di Aquileia, cui si erano uniti i vescovi del­l'Illiria, rientrò nell'unità e nell'obbedienza al papa, solo al principio del sec. VII, per gli sforzi dell'esarca di Ravenna, da cui Grado dipendeva politicamente.

Tre sono le lettere che Pelagio II inviò ai vescovi della Venezia e dell'Istria, lettere commosse e insistenti, nelle quali non solo li invitava caldamente a cessare dallo scisma e a riallacciare la co­munione con Roma, ma dimostrava quale era la vera portata della condanna dei Tre capitoli e come l'approvazione delle decisioni del concilio di Costantinopoli, da parte della Santa Sede, non aveva in­ferto alcuna ferita all'antica fede e alle definizioni dei primi quat­tro concili ecumenici, specie del calcedonese: fede e definizioni che essa venerava e conser­vava illibate da ogni alterazione. Infine li pregava di inviare a Roma dei delegati veramente capaci i quali sarebbero stati trattati con ogni ri­guardo.

Era allora segretario di Pelagio II il monaco Gregorio, poi papa Gregorio Magno, che aiutò Pelagio II in questa inizia­tiva e, probabilmente, scrisse la terza let­tera, come attesta Paolo Diacono (Hist. Langobardorum, III, 20).

Alle prime due lettere risposero gli sci­smatici con scritti nei quali respingevano l'invito e ripetevano gli argomenti soliti in difesa dei Tre Capitoli. Alla terza non ebbero tempo di rispondere perché l'e­sarca Smaragdo in­tervenne con de­cisione, obbligandoli a recarsi alla proget­tata conferenza a Ravenna; ma, ivi giunti, li tenne in prigione sino a che non ebbero firmata la sot­tomissione. Se non­ché, appena tornati alle loro sedi, ritrattarono la firma che era stata loro estorta e rinnovarono lo scisma, interponendo ricorso all'imperatore Maurizio che disap­provò l'operato di Smaragdo e lo destituì.