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Concilio Costantinopolitano II (553 d.C.)

Testo del Concilio

La storia del Concilio

Il quinto concilio ecumenico -II di Costantinopoli- celebrato nel 553, ai tempi di papa Vigilio, fu convocato dall'imperatore Giustiniano per conquistarsi la simpatia dei monofisiti, mediante la condanna di tre scritti (condanna dei Tre Capitoli) di altrettanti teologi della scuola antiochena: Teodoro di Mopsuestia (Contra impium Apollinarium libri III), Teodoreto di Cirro (lettera contro Cirillo d'Alessandria) e Iba di Edessa (lettera al persiano Maris). Una condanna giusta, ma sospetta, perché gli incriminati -che peraltro si erano riconciliati con la Chiesa- erano morti da oltre centoventi anni.

Analisi Concilio

L'imperatore Giustiniano vuole salvaguardare l'equilibrio politico religioso ma di fatto il monofisismo serpeggia ancora nella Chiesa non solo nella scuola alessandrina ma anche in altri patriarcati, e allora l'imperatore vuole fare un passo verso i monofisiti e vuole condannare i capi teologi di Antiochia. Ma venne convocato nel 553 un Concilio che è il Secondo di Costantinopoli, in accordo con Papa Vigilio, avrebbe dovuto questo concilio condannare i tre capitoli, questi tre capi. Non era molto convinto di questo concilio il Papa, l'imperatore osteggia il Papa, che si deve ritirare a Calcedonia. Il Concilio apre senza il Papa, anzi con il disappunto del Papa, vengono condannati i tre capitoli e il Papa prende le distanze dalla condanna delle tre persone, solo in un secondo momento la circoscrive ma con una riserva. Papa Vigilio alla fine approva perchè si rende conto che non contraddice il Concilio di Calcedonia ma è un modo di spiegarlo, questo infatti diventa una chiarificazione di Calcedonia, anche per coloro che parlano un altro linguaggio che è quello di Cirillo. Perchè i monofisiti sono così problematici rispetto al Concilio di Calcedonia? Il fatto delle due nature metteva dei dubbi, si rischiava di andare nella posizione di Nestorio che vedendo due nature separate cadeva in due soggetti, due ipostasi.

Canone 7 del Costantinopolitano II

“Se qualcuno, dicendo "in due nature", non confessa che nella divinità e nella umanità si deve riconoscere il solo signore nostro Gesù Cristo, così che con questa espressione voglia significare la diversità delle nature, da cui senza confusione e in modo ineffabile è scaturita l'unità, senza che il Verbo passasse nella natura della carne, e senza che la carne si trasformasse nella natura del Verbo (l'uno e l'altra, infatti, rimangono ciò che sono per natura, pur operandosi l'unione secondo ipostasi; se costui, dunque, intende tale espressione come una divisione in parti nel mistero di Cristo; ovvero, pur ammettendo, nello stesso ed unico signore nostro Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato, la pluralità delle nature, non accetta solo in astratto la differenza dei principi da cui è costituito, non tolta certo in seguito all'unione (uno, infatti, è da due, e due in uno), ma in ciò si serve della pluralità delle nature per sostenere che esse sono separate e con una propria sussistenza, costui sia anatema.”

Chiodo fisso dopo Calcedonia sarà sempre partire dall'unità, la preoccupazione è quella di dire che si tratta di un solo Cristo, questa unità rispetta la divinità e l'umanità che non si mescolano, il motivo è soteriologico, se Cristo non ha assunto la nostra condizione umana non ci ha salvato, la preoccupazione non era di ellenizzare il dogma ma di dire che ci ha salvato l'uomo-Dio. Con questo canone si rifiuta il Nestorianesimo, con il canone 8 si parlerà invece del monofisismo.

Canone 8 del Costantinopolitano II

“Se uno confessa che dalle due nature, divina e umana, è sorta l'unione, o ammette una sola natura incarnata del Verbo di Dio ma non intende queste espressioni secondo il senso dei santi padri, cioè che, avvenuta l'unione secondo Impostasi della natura divina e della natura umana, un solo Cristo ne è stato l'effetto; ma con questa espressione tenta introdurre una sola natura o sostanza della divinità e della carne di Cristo, costui sia anatema. Dicendo, infatti, che il Verbo Unigenito si è unito alla carne secondo l'ipostasi, noi non affermiamo che si sia operata una confusione scambievole delle nature, ma che, rimanendo l'una e l'altra ciò che è, il Verbo si è unito alla carne. Di conseguenza, uno è anche il Cristo, Dio e uomo, consustanziale al Padre secondo la divinità, della nostra stessa natura, secondo l'umanità. Per questo, la chiesa di Dio rigetta e condanna sia coloro che dividono o separano secondo le parti il mistero della divina incarnazione di Cristo, sia coloro che le confondono.”

Qui c'è un grande rispetto verso la scuola alessandrina e ciò che insegnava Cirillo che in Cristo c'è una sola natura incarnata, va bene questa posizione se non va contro la concezione dei Padri. Quell'unica natura Cirillo la intendeva come esistenza concreta, quindi in senso ortodosso, Cirillo quando parlava di una natura incarnata intendeva quello che intendevano i Padri, un unico Cristo. Questo Concilio fa dire a Cirillo quel che non ha detto, interpreta la dottrina di Cirillo alla luce di Calcedonia.

La dottrina della comunicazione delle proprietà deriva dal vocabolario di Cirillo che affermava che per dire l'unità dell'umanità e della divinità, si possono riferire le caratteristiche della divinità del Cristo alla sua umanità e viceversa. Questa dottrina nell'intenzione di Cirillo voleva salvaguardare l'unità dell'umanità e la divinità di Cristo, si può dire che Dio ha sofferto ed è morto per noi, anche se questa morte e sofferenza avviene per la sua umanità. Non può soffrire nella sua natura divina, ma umanamente si, ma poiché questa umanità appartiene al Verbo di Dio, ha sofferto anche Dio. Geniale questa intuizione, perchè salvaguarda dall'eresia nestoriana che vedeva due soggetti in Cristo. La dottrina di Cirillo aiuta a interpretare quello che veniva dopo. Il Concilio Costantinopoli II porta avanti questa dottrina, per cui possiamo dire che può essere attribuito al Verbo incarnato tutto ciò che Gesù compie in quanto uomo, il Verbo di Dio si appropria della sua umanità.

La dottrina dell'en-ipostasi che letteralmente significa entrare dentro l'ipostasi, en, dentro. Questa dottrina dell'en-ipostasis è un'esigenza che proviene dal dettato stesso di Costantinopoli II, dal canone IV. Leonzio di Bisanzio difende estremamente Calcedonia e per spiegare due nature in una persona, introduce un linguaggio nuovo. Vuole spiegare ai monofisiti che la loro espressione privileggiata “carne umana del Logos” è equivoca, trae in inganno, in verità non si tratta di carne umana del Logos, ma come dice Calcedonia natura umana, altrimenti si rischia di fare confusione tra ipostasis e natura, se la carne umana di Cristo è la sua natura umana, occorrerrà riconoscere due nature, altrimenti la natura umana è tutta assorbita dalla divinità. Si rischia di andare all'errore di Apollinare, o dei docetisti in fondo, in fondo non è una reale umanità in questo modo. Leonzio di Bisanzio crea quindi en-ipostasi, dentro l'ipostasi, una sostanza o natura non può essere mai pensata da sola ma sempre in rapporto ad un'hypostasis, se è vero che ad ogni ipostasi, ad ogni persona corrisponde una natura, non è vero che ad ogni natura corrisponde un'ipostasi, in questo senso la natura umana di Cristo è ipostatica? Corrisponde a una persona o no? No, altrimenti se ad ogni natura corrispondesse un'ipostasi ci sarebbero due ipostasi in Cristo. Nel 1974 la congregazione della dottrina della fede bacchetta alcuni teologi che usano l'espressione "persona umana di Gesù", se persona è il costitutivo ontologico di una persona se dico che il costitutivo ontologico del Cristo è la sua umanità, vuol dire che è solo uomo, o che ci sono due Cristo. Il costitutivo ontologico di Cristo è il Logos, umano e divino insieme. Leonzio di Bisanzio ci fa capire che è vero che ad ogni natura non corrisponde un'ipostasi, la natura di Cristo non è ipostatica non inerisce a una persona, ma la natura di Gesù non è neanche an-ipostatica, non è senza ipostasi, non è priva di ipostasi, ma la natura umana si appropria dell'ipostasi del Logos, questa dottrina aiuta a capire Calcedonia.

La Storia

Era accaduto che nella Grande Laura a Mars Saba, a oriente di Gerusalemme alcuni monaci andavano diffondendo dottrine origeniste, quali la preesistenza e la trasmigrazione delle anime e la riparazione finale. San Saba, il vecchio abate, vi si oppose fortemente quindi si recò a Costantinopoli per chiedere l'espulsione dei monaci origenisti.

Dopo la sua morte la lotta si fece più accanita e due monaci origenisti riuscirono a farsi nominare vescovi dalla corte imperiale: Domiziano ad Ancira e Teodoro Aschida a Cesarea di Cappadocia.

Gelasio, successore di san Saba nella Grande Laura, denunciò l'eresia al rappresentante del papa, presente al Concilio di Gaza, del 539. Questi, tornato a Costantinopoli, sollecitò l'imperatore Giustiniano (527-565) ad intervenire contro l'origenismo.

Giustiniano, nel 543, scrisse un Trattato contro gli errori di Origene, terminante con dieci anatemismi e lo pubblicò sotto forma di Editto.

Questo Editto fu sottoscritto anche da Teodoro Aschida, il quale però si prese una ri­vincita sollevando presso Giustiniano un'altra questione: la condanna degli scritti di tre au­tori, legati a Nestorio (Teodoro di Mopsuestia, mae­stro di Nestorio; Teodoreto di Cirro, suo amico; Iba di Edessa).

E' vero che Teodoro era morto in comunione con la Chiesa e Teodoreto e Iba erano stati riabili­tati dal Concilio di Calcedonia (451); ma i monofisiti insistevano perché i tre fossero condan­nati, considerandoli degli avversari di s. Cirillo e facendo vedere che costituivano l'ostacolo alla loro unione.

Convinto di questi argomenti, Giustiniano, nel 544, pubblicò un altro Editto, costituito da Tre anatemi contro i tre autori incriminati: onde il nome dato all'editto di Chefàlaia -Capitula in latino- nome che poi designò il contenuto degli anatemastismi stessi. Nell'editto dei Tre Capitoli si condannava:

  • La persona e gli scritti di Teodoro di Mopsuestia;
  • Gli scritti di Teodoreto di Cirro in favore di Nestorio e contro Cirillo ed il Concilio di Efeso;
  • Le lettere di Iba di Edessa inviate a Mari, vescovo di Ardashir dopo il 433.

La condanna, presa in sé, era giusta, in quanto quegli scritti non erano immuni da errori; ma le circostanze la rendevano sospetta: veniva infatti riesumata una questione vecchia di circa cento venti anni e ormai obliterata, come ebbe a scrivere il vescovo Facondo.

Questa condanna, in Oriente fu accolta con esitazione, poiché non portava la pace sperata. In Occidente ci fu invece una violenta reazione perché la condanna sembrava andasse contro il Concilio di Calcedonia (451), cui gli occidentali erano molto attaccati.

Papa Vigilio (537-555), dopo essere rimasto a lungo incerto di fronte a quella condanna, l'11 aprile 548 emise la propria sentenza che prese il nome di Iudicatum con il quale condannò Teodoro, gli scritti di Teodoreto e la lettera di Iba, ma allo stesso tempo manifestò la sua piena adesione al Concilio di Calcedonia.

Lo Iudicatum fu male accolto dai vescovi dell'occidente e quelli dell'Illirico, delle Gallie e dell'Africa giunsero a rompere la comunione con il Papa fino a quando non avesse fatto penitenza. Di fronte all'opposizione suscitata dal suo Iudicatum Vigilio lo ritirò (550), inducendo Giustiniano a convocare un concilio ecumenico che illuminasse gli occidentali sulla questione; dovette però promettere che non avrebbe fatto nulla contro i Tre Capitoli.

Il concilio, convocato a Costantinopoli il 5 maggio 553, condannò Teodoro, Teodoreto e Iba, mentre il papa il 14 maggio 553 inviò all'imperatore una sua dichiarazione , sui Tre Capitoli, firmata da 16 vescovi e che prese il nome di Constitutum Vigilii papae de tribus capitulis. Il Constitutum condannava gli errori di Teodoro e di Teodoreto, ma non le persone, per il principio canonico che non si condannava una persona morta nella comunione ecclesiastica; mentre per Iba accettava la giustificazione presentata al concilio di Calcedonia.

Giustiniano considerò il Constitutum un volta­faccia del papa. Perciò non volle riconoscerlo e comunicò al concilio gli atti precedenti di Vigilio, chiedendo che il suo nome fosse tolto dai dittici. E poiché non intendeva creare uno scisma, usò un'abile formula, dicendo che Vigilio stesso si era separato dalla comunione dei vescovi difendendo quanto i Tre Capitoli avevano condannato; mentre si manteneva l'unione con la Sede apostolica. I vescovi accettarono l'ordine dell'imperatore e il Concilio continuò senza più interessarsi del papa e, nell'VIII e ultima sessione (2 giu­gno 553), promulgò quattordici anatemismi in cui condannava gli scritti di Teodoro, Teodoreto e Iba; acccettava però i quattro concili, compreso Calcedonia.

Giustiniano si mise subito all'opera per far riconoscere queste decisioni del concilio, sia in Oriente, sia in Occidente. E fece pressioni sullo stesso papa Vigilio che approvò il concilio, con lettera inviata l'8 dicembre 553 a Eurichio di Costantinopoli; quindi, nel tentativo di conciliare i decreti del concilio di Calcedonia e la recente condanna, il 23 febbraio 554, a Costantinopoli, pubblicò un nuovo Constitutum in cui giustificava la condanna dei Tre Capitoli. Fatta così la pace con l'imperatore e riconosciuto il concilio -che così divenne ecumenico- papa Vigilio nella primavera del 555 lasciò Costantinopoli per tornare a Roma, dopo dieci anni di assenza, ma morì in viaggio il 7 giugno a Siracusa.

Prima di partire, papa Vigilio aveva ottenuto, da Giustiniano, la Pragmatica sanctio (554), che riordinava il governo d'Italia, riconquistata dai bizantini. Tra l'altro fu riorganizzato tutto il sistema scolastico, con il ripristino dell'insegnamento della grammatica, della retorica, della medicina e del diritto.

Le condizioni di Roma durante l'assenza del papato erano tristissime. Governava un certo Marea, contrario, come tutti, alla condanna dei Tre Capitoli.

Morto Vigilio, fu mandato a Roma, affinché si eleggesse come papa, il diacono Pelagio, il quale aveva partecipato a tutti gli avvenimenti di Costantinopoli e dopo aver combattuto la condanna, l'aveva egli pure accettata, riconciliandosi con l'imperatore. Ma a Roma questa scelta non fu gradita perché si accusava Pelagio di aver provocato la morte di Vigilio. La sua consacrazione ebbe luogo dopo dieci mesi, il 16 aprile 556 -giorno di Pasqua- e fu compiuta non dal vescovo di Ostia, ma da due vescovi, con l'assistenza di Andrea prete di Ostia, mentre il clero, i monaci e il popolo si tennero lontani dal nuovo papa. Pelagio I (556-560) seppe però riconquistarsi la fiducia, giustificandosi pubblicamente, in S. Pietro, con una professione di fede in cui protestava la sua fedeltà agli insegnamenti dei papi precedenti, in particolare di s. Leone, come ai quattro concili ecumenici, nulla dicendo del quinto e aggiungendo che accettava tutto quello che essi avevano accettato "soprattutto i venerabili vescovi Teodoreto e Iba", tacendo completamente su Teodoro. Quindi riallacciò le relazioni con i vescovi del regno franco, e inoltre mandò la sua professione di fede ai vescovi della Tuscia che erano giunti a non mettere il suo nome nei dittici.

Pelagio morì nel 561 e gli successe Giovanni III (561-574), cui fecero seguito Benedetto I (574-579) e Pelagio II (579-590). In queste elezioni, come già per Pelagio I, appare come fosse invalso l'uso che l'imperatore d'Oriente confermasse l'elezione del papa. Le aumentate difficoltà politiche avevano però attenuato i rapporti tra i papi e gli imperatori di Costantinopoli per cui la conferma dell'elezione del papa veniva data non direttamente dall'imperatore, ma dal suo rappresentante a Ravenna. Si accrebbero così i legami tra il papato e l'esarca di Ravenna, capo militare e poi anche civile dei territori italiani, rimasti ai bizantini dopo l'invasione longobarda. Il Liber diurnus ci conserva il formulario con cui, fino al sec. VII, i papi erano soliti comunicare con lettera all'esarca la propria nomina.

Nel frattempo continuava l’opposizione contro la condanna dei Tre Capitoli in Africa, nell'Italia settentrionale e nell'Illirico. I vescovi di quest'ultima regione non avevano voluto partecipare al concilio di Costantinopoli e poi si mantennero contrari.

Nonostante che Giustiniano avesse rimosso il metropolita di Salona e esiliato alcuni vescovi dell'Illirico, la pace religiosa non fu ristabilita e i vescovi della Dalmazia continuarono nello scisma. Nell'Italia settentrionale accettò il concilio il metropolita di Ravenna, Agnello; invece non vollero accoglierlo gli altri due me­tropoliti: Vitale di Milano e Macedonio di Aquileia, i quali rifiutarono persino la comunione con Pelagio, perché aveva accettato il V concilio. La scissione si aggravò con l'invasione longobarda dell'Italia del Nord (568), in seguito alla quale l'arcivescovo di Milano si rifugiò a Genova e quello di Aquileia nell'Isola di Grado, dove aveva costruito una cattedrale dedicata a s. Eufemia, la martire del concilio di Calcedonia. L'uno e l'altro territorio erano sotto i Bizantini, ma a nulla riuscirono le insistenze dei pontefici perché rientrassero nell'unità. Così, sotto il pontificato di papa Pelagio II, lo scisma dei Tre Capitoli perdurava ancora a Milano, nella Venezia e nell'Illiria.

Milano rientrò nell'unità, grazie a s. Gregorio Magno che intervenne presso Teodolinda, regina dei Longobardi; mentre il nuovo patriarcato di Aquileia, cui si erano uniti i vescovi dell'Illiria, rientrò nell'unità e nell'obbedienza al papa, solo al principio del sec. VII, per gli sforzi dell'esarca di Ravenna, da cui Grado dipendeva politicamente.

Tre sono le lettere che Pelagio II inviò ai vescovi della Venezia e dell'Istria, lettere commosse e insistenti, nelle quali non solo li invitava caldamente a cessare dallo scisma e a riallacciare la comunione con Roma, ma dimostrava quale era la vera portata della condanna dei Tre capitoli e come l'approvazione delle decisioni del concilio di Costantinopoli, da parte della Santa Sede, non aveva inferto alcuna ferita all'antica fede e alle definizioni dei primi quattro concili ecumenici, specie del calcedonese: fede e definizioni che essa venerava e conservava illibate da ogni alterazione. Infine li pregava di inviare a Roma dei delegati veramente capaci i quali sarebbero stati trattati con ogni riguardo.

Era allora segretario di Pelagio II il monaco Gregorio, poi papa Gregorio Magno, che aiutò Pelagio II in questa iniziativa e, probabilmente, scrisse la terza lettera, come attesta Paolo Diacono.

Alle prime due lettere risposero gli scismatici con scritti nei quali respingevano l'invito e ripetevano gli argomenti soliti in difesa dei Tre Capitoli. Alla terza non ebbero tempo di rispondere perché l'esarca Smaragdo intervenne con decisione, obbligandoli a recarsi alla progettata conferenza a Ravenna; ma, ivi giunti, li tenne in prigione sino a che non ebbero firmata la sottomissione. Se nonché, appena tornati alle loro sedi, ritrattarono la firma che era stata loro estorta e rinnovarono lo scisma, interponendo ricorso all'imperatore Maurizio che disapprovò l'operato di Smaragdo e lo destituì.