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Il monachesimo

Il termine monaco -che deriva da monos, nel significato di solitario; da cui monaco ricorre nella tra­duzione della Bibbia detta dei Settanta


Il termine monaco -che deriva da monos, nel significato di solitario; da cui monaco (furono indistintamente usati anche i termini viri dei; e per le mo­nache, sanctimoniales, virgines)- ricorre nella tra­duzione della Bibbia detta dei Settanta, mentre nella letteratura ecclesia­stica è usato per la prima volta nel significato tecnico -che di­verrà tradizio­nale- da Eusebio di Cesarea (+ c. 340). Tra gli occidentali, s. Girolamo (+ 420) è il primo che adoperi la forma latinizzata di monachus. Prima di lui, la ricordata pellegrina Egeria, nel racconto delle sue peregrinazioni, aveva usato anche il termine mo­nazontes variante la­tina di monacos, e di parthene nel significato di vergini, termini che però non ebbero for­tuna.

I monaci sono continenti (continentes, virgines), asceti (da àschetaì), ana­coreti (da anacotéin = ri­tirarsi; più tardi eremita, da érmos = deserto) che conti­nuano la tradizione dei combattenti per la fede instaurata con il martirio e si di­stinguono dai pastori e dai laici perché sono dei segregati, remoti.

Il monachesimo nasce in Egitto

Il monachesimo neotestamentario è una cre­azione dell'Egitto cristiano, dove fu favorito dal clima e dal deserto.

Narra Eusebio di Cesarea come, durante la persecuzione di Decio (c. 250), alcuni cristiani d'Egitto, di­nanzi alle minacce, fuggirono nel deserto della Tebaide. Passato il peri­colo, al­cuni preferirono rima­nervi e fu l'inizio della vita eremitica. Più tardi, dopo la pace co­stantiniana quando, con la conversione in massa del mondo pa­gano si abbassò il tono eroico dell'antica vita cristiana, molti fedeli di nuovo scelsero la via del de­serto per ma­ntenere altissimo il li­vello morale ereditato dall'era dei martiri. All'ideale del martirio cruento si sostituì così quello della vita ascetica.

Prima figura sto­rica­mente accertata di eremita cristiano è l'egiziano Antonio (+356 ca.), il patriarca del monachesimo, uomo di preghiera e lot­tatore contro il demonio, di cui s. Atanasio (+373) scrisse la Vita Antonii, definita da s. Gregorio Nazianzeno una "regola mo­nastica sotto forma di racconto".

All’origine della singolare esperienza di Antonio c’è l’ascolto della parola di Dio. Narra Atanasio come Antonio, all’età di 18/20 anni, divenuto orfano, entrò in chiesa dove ascoltò il passo del Vangelo che dice, “se vuoi essere perfetto, va, vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi, vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli” (Mt 19, 21). Entrato di nuovo in chiesa udì l’altro passo; “non preoccupatevi del domani” (Mt 6, 34). Antonio, come più tardi s. Francesco d’Assisi, considerando le ricchezze come un impedimento per chi ha scelto come unico bene di stare acccanto a Dio; per questo, sull’esempio degli apostoli , vendette tutto quello che possedeva e si dedicò alla vita ascetica, dapprima poco fuori del villaggio, dove viveva; a questa seguirono altre tre “fughe” che lo spinsero a cercare una solitudine sempre più grande. Nel deserto Antonio si dedicò alla vita ascetica, sottoponendosi a una dura disciplina. Lavorava con le proprie mani, “parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il pane, parte lo distribuiva ai poveri”. Pregava continuamente, leggeva e mandava a memoria le Scritture. La memorizazione delle Scritture sarà una pratica largamente diffusa nel deserto egiziano. L’Historia monachorum , che è un viaggio tra le comunità dei monaci dell’Egitto fatto nel 394/395 da sette giovani di Gerusalemme, testimonia che diversi solitari del deserto egiziano conoscevano a memoria l’Antico e il Nuovo Testamento. Il demonio cercò allora di distogliere Antonio dalla vita monastica; da parte sua Antonio rispondeva con continue preghiere, con la “ruminazione” delle scritture durante tutta la giornata, anche nel tempo occupato dal lavoro. Un giorno però Antonio passò all’attacco e si rinchiuse in un sepolcro, lontano dal suo villaggio -all’epoca i sepolcri erano ritenuti le abitazioni del demonio- per affrontare il demonio nella sua dimora, sfidandolo con la parola di Dio e la preghiera dei salmi. Dapprima il demonio chiamò i suoi cani, immagine del male, poi assunse la forma di animali feroci: “e subito il luogo si riempì di immagini di leoni, di orsi, di leopardi, di tori, di serpenti, di vipere, di scorpioni e di lupi; il leone ruggiva come se volesse assalirlo, il toro pareva prenderlo a cornate, il serpente strisciava, ma senza raggiungerlo, il lupo si lanciava su di lui, ma veniva trattenuto” (VA, 8). Le fiere, che appaiono ad Antonio, probabilmente suggerite dai dipinti delle tombe stesse, rimandano tuttavia alle belve cui erano consegnati i martiri cristiani durante le persecuzioni. Antonio ha sete del martirio, vuole testimoniare la sua fede fino al sangue e, vedendo nella sua immaginazione queste fiere, comincia a predisporsi al martirio, quello incruento dei monaci. Del resto narra Atanasio che, durante la persecuzione ad Alessandria, Antonio lasciò il deserto e andò a visitare i cristiani che, in carcere, attendevano la morte. Li consolava, li confortava, senza temere le minacce dell’autorità e quando cessò la persecuzione se ne ritornò nel deserto, ritirandosi nel suo eremo dove visse il “martirio della coscienza” (VA, 46). Di nuovo si tornerà a parlare di animali, ma in un altro contesto: novello Adamo, Antonio vive in comunione con tutte le creature. Sul monte, che ha scelto come sua dimora, coltiva un piccolo orto e nei primi tempi le bestie del deserto vengono là e danneggiano quello che egli aveva seminato e coltivato. Allora Antonio si rivolge a una di quelle bestie dicendo: «perché mi fate del male, mentre io non ve ne faccio? Andatevene e nel nome del Signore non avvicinatevi mai più in questo luogo. E da quel momento, come se temessero il suo comando, non si avvicinarono più» (VA, 50).

Al­cuni asceti, desi­derosi di fuggire dal mondo per entrare in un contatto ininter­rotto con Dio, si unirono ad Antonio, ormai vecchio, per averne il consiglio e la dire­zione; si originò così una comunità di anacoreti senza regola e stabilità, tutta in­centrata sul prestigio personale di Antonio, divenuto loro padre spirituale.

Malati e sofferenti, indemoniati accorrevano nel deserto per implorare da Antonio la guarigione. Atanasio colloca la maggior parte dei miracoli del santo, dalle guarigioni alle profezie, segno della presenza di Dio in lui, nell’ultimo peridodo della sua vita, quando si era ritirato nella regione più interna del deserto, su di una montagna.

Il monachesimo In Palestina

Il monachesimo egizio fu un movimento di laici, cui in seguito pre­sero parte anche sacerdoti. Questi, dall'Egitto, passarono in Palestina, dove si affermò come laura, una forma promiscua dei due sistemi di monachesimo (eremo e monastero /anacoretismo e cenobitismo).

Le laure (laura = vicus), costi­tuite dal­l'unione di più celle in ognuna delle quali abitava un anacoreta, erano delle colonie dove i monaci vivevano in celle di­verse -somiglianti agli agglomerati ascetici giudaici di Qumràm- sotto la guida di un abate. I laurioti si adunavano solo il sa­bato e la dome­nica per cele­brare l'ufficio divino e la liturgia euca­ristica e ricevere la comunione.

E, come si è detto, il monachesimo di Palestina, divenne polo d'attrazione dei pellegrini. Scrive s. Girolamo (Vita Pauli, Malchi, Hilarionis), che il Signore Gesù, se in Egitto aveva il vecchio Antonio, in Palestina (Gaza) aveva Ilarione, di lui più giovane, e fra di loro in corrispondenza (XIV). Ilarione, uomo di grande penitenza, nei suoi spostamenti era accompagnato da un’infinita schiera di monaci (i monaci che mangiarono l’uva di Saba erano tre mila!, XXV). Presso Ilarione accorrevano vescovi, preti, matrone, folle di laici; per evitarli si inoltrò nel deserto, come Antonio, di cui fu emulo e successore.

Due le laure più fa­mose: quella di S. Eutimio (+ 473) e la Laura Grande, nei pressi di Gerusalemme, poi detta di s. Saba (+ 532), dal suo più illustre abate. A s. Saba si attribui­sce un "Typikon" il quale contiene circa 150 articoli discipli­nari ol­tre che varie prescrizioni liturgiche: un testo che, dopo molti ri­maneg­gia­menti, è divenuto una specie di calendario univer­sale per molte comunità d'O­riente.

Le Regole del monachesimo in Oriente

Quattro le più celebri regole per monaci: in Oriente quelle di s. Pacomio e di Basilio; in Occidente, quelle di s. Agostino e di s. Benedetto.

Il merito di aver scritto la prima regola per monaci spetta a s. Pacomio (+346). Egli, un ex militare, verso il 320 fondò a Tabennisi sul Nilo, nella Tebaide (alto Egitto), il primo monastero (monastérion) o ce­nobio (coinòbion): una casa costruita da più celle e recinta da un muro. A questa comunità diede pure una re­gola, scritta in lingua copta e divenuta modello per le successive. Questa regola, tradotta in latino da s. Girolamo nel 404, com­prende quattro gruppi di prescri­zioni mo­nastiche: Praecepta; Praecepta et Instituta; Praecepta atque Iudicia; Praecepta ac leges. Vi si stabiliscono norme per la preghiera -le prati­che di pietà; per il vitto, per il lavoro manuale e la disciplina. Notevole la prescrizione di mandare a memoria tutto il Nuovo Testamento e il libro dei Salmi. Il capo spirituale, al quale i mo­naci debbono obbedienza incondizionata, si chiama abate, cioé padre.

Maestro e padre del cenobitismo orientale è però Basilio il Grande (+379), arcivescovo di Cesarea in Cappadocia; nonostante che il santo non sia il fondatore di un ordine religioso, tuttavia con la sua vita e con i suoi scritti di spiritualità ha dato al monachesimo un'impronta indelebile. La sua con­cezione della vita monastica è un'evoluzione di quella di Pacomio, ma risente anche delle influenze del monachesimo di Palestina. Gli si attribuiscono due regole mo­nastiche, scritte intorno al 360 - nota in occidente fu il Parvum ascetikon, tradotto da Rufino di Aquileia- (203 questiones cui Basilio risponde). Oltre che sull'ideale contemplativo, si insiste sul valore educativo della vita co­mune, sulla cura delle anime, su una formazione culturale superiore, nonché sullo studio della teo­logia.

Nonostante i santi asceti e l'austerità di vita, il monachesimo di Siria non ha dato una regola che abbia influito in maniera unica su una larga cerchia di asceti. Va ricordata però la regola di Rabbûlâ (+ 436), già monaco e poi vescovo di Edessa. E' un riassunto della legislazione ascetica precedente.

Vita quotidiana e devianze

I monaci, quasi tutti laici, vestivano una tunica nera, con cin­tura di cuoio e, sopra, una pelle di pecora o di capra con cappuc­cio. Loro oc­cupazione: lavori manuali e preghiera.

Non di rado, ac­canto ai mona­steri maschili, furono eretti monasteri femminili per ragioni di sicu­rezza, di cura animarum, ma anche eco­nomiche. Attesi i pericoli, il si­nodo di Provenza nel 506 e l'imperatore Giustiniano (529 e 546), proi­birono i monasteri doppi. Questo tipo, entrato però in Occidente, so­pravvisse sino alla fine del Medioevo, anzi nel sec. XII ci fu un nuovo periodo di fioritura.

In Italia vennero monaci basiliani della Santa Montagna (Monte Athos) che accentuava i presupposti di Basilio sulla dignità della persona umana, sull’obbedienza e sulle opere di misericordia.

Accanto alle forme organizzate di monache­simo non manca­rono de­genera­zioni vere e proprie; tali: i sarabaiti o remoboth che vivevano in celle a due o a tre, senza superiori e regola fissa; i gi­rovaghi che vagabondavano da un monastero all'altro; i pasco­lanti che in Siria vagavano senza posa per le campa­gne e si nutrivano di erbe. Sorsero anche forme particolari di anacoretismo, quali gli inclusi o reclusi che si facevano rinchiudere o murare a lungo o per sempre in una cella, un'ascesi che verrà trapiantata in Occidente dove soprav­vi­verà sino al XVI secolo, sia in campo ma­schile, sia in quello femminile. Non eb­bero invece successo in occidente altre espe­rienze orientali, come quella degli stiliti, cioé santi della colonna: il primo è s. Simeone (+459) che passò 30 anni su una colonna, presso Antiochia, alta 40 cubiti; e l'al­tra degli ace­meti, cioé gli in­sonni di Costantinopoli che, divisi in parec­chi cori, pregavano inin­terrottamente.

Il monachesimo in occidente

L’Occidente conobbe il monachesimo orientale tramite s. Atanasio di Alessandria, sia in occasione del suo esilio a Treviri (335/8), sia con la Vita Antonii; mentre le prime forme di monachesimo risalgono al III se­colo .

All'introduzione e alla dif­fusione con­tribuirono s. Girolamo, venuto a Roma nel 381 che, ol­tre a praticare lui stesso l'eremitismo, lo difese anche in campo letterario (Vita Pauli, Malchi, Hilarionis); Giovanni Cassiano con i suoi scritti (Le Istituzioni e Le Conferenze); e s. Martino vescovo di Tours, nella Gallia, dove eresse il primo monastero d'Occi­dente, due secoli prima di Benedetto. Mentre, a Roma, il primo monastero fu eretto presso S. Sebastiano in cathacumbas, ad opera di Sisto III (432-40). Assai tardi invece vennero in Italia monaci siri e monaci della Santa Montagna (Monte Athos), basiliani che avevano adottato l'indi­rizzo di s. Teodoro Studita (+ 825) che accentuava i presupposti di Basilio sulla dignità della persona umana, sull'obbedienza e sulle opere di misericordia.

A dare un'impronta indelebile e decisiva al monachesimo d'Occi­dente fu­rono s. Agostino e s. Benedetto.

S. Agostino, il quale deve la sua conversione alla lettura dell'opera di sant'Atanasio, in particolare alla vita di S. Antonio, scrisse la Regula ad servos Dei, la quale esercitò un note­vole influsso su s. Cesario di Arles e su s. Benedetto da Norcia. S. Cesario fu il primo a scri­vere, verso la metà del sec. VI, una regola per sacre vergini, oltre che una regola per monaci.

Non meno significativa l’esperienza portata avanti da Cassiodoro (+583), senatore romano che, sotto Teodorico il Grande (re d’Italia dal 493 al 526) occupò le cari­che di Stato più elevate, adoperandosi per conci­liare e accordare romanesimo e germanesimo. Verso il 540 si ritirò, in Calabria, nel monastero di Vivarium, da lui fondato, dove si dedicò alle pratiche di pietà e all'attività lettera­ria. E' au­tore delle Institutiones divinarum et saecularium lectionum che conten­gono una metodologia dello studio teologico e un avvia­mento alle sette Artes li­berales. Scrisse inoltre una Historia eccle­siastica tripartita (un sommario di sto­ria della Chiesa, te­sto assai apprezzato nel Medioevo), la Storia dei Goti e per i suoi monaci opere di edificazione spirituale, tra cui l’ Expositio Psalmorum, composta tra il 538-548, unico commento della patristica latina all’intero salterio.

Erano questi gli anni in cui Dionigi il Piccolo (appellativo adottato per umiltà), monaco scita, venne a Roma (496-555) per tradurre le tavole dei cicli pasquali di Cirillo d’Alessandria con i calcoli della Pasqua, proseguendoli fino al 626. Per la prima volta computò gli anni della nascita di Cristo, dicendola avvenuta nel 753 dalla fondazione di Roma, ma fu un calcolo errato. Questo è anche il tempo di Benedetto da Norcia.

Benedetto da Norcia (480-547/48), per aver riordina­to il mona­chesimo d’occidente , ebbe l’appellativo di pa­triarca del ce­nobitismo occi­dentale. Della sua vita sappiamo solo quello che ci deriva dal II libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, il quale si era però documentato presso quattro discepoli del santo: Costantino, suo successore a Subiaco; Valentiniano, superiore al monastero presso il Laterano; Simplicio, terzo successore di Benedetto e Onorato quarto successore che conobbe il santo nel primo periodo della sua vita religiosa.

Papa Gregorio racconta che quest’uomo, “benedetto di nome e di grazia”, nacque a Norcia. Giovanetto, fu dai genitori mandato a Roma per farlo studiare. Disgustato tuttavia della corruzione dei costumi della città, Benedetto, insieme alla nutrice, se ne fuggì per ritirarsi a Subiaco, “ricca di abbondanti acque”. Abbandonata quindi la sua nutrice, si ritirò in una “stretta e scabrosa spelonca”, inizialmente conosciuta solo da Romano, il monaco che lo assisteva, portandogli, di tanto in tanto, del cibo. Quivi Benedetto, fu tentato dal demonio, sotto forma di un uccello piccolo e nero, un merlo. Benedetto vinse la tentazione “spogliandosi delle sue vesti e gettandosi nudo tra le spine dei rovi e le foglie brucianti delle ortiche”. Di lì a poco si presentò a Benedetto la piccola comunità di eremiti i quali vivevano nei dintorni, acconsentendo di esserne l’abate. L’esperienza fu tuttavia breve, perché quegli eremiti, rozzi e malvagi, tentarono di avvelenarlo, per cui Benedetto se ne ritornò alla sua grotta. Di lì a poco però fondò dodici monasteri, a ciascuno dei quali propose un proprio abate e molti nobili romani cominciarono ad accorrere a ad affidargli i propri figli. Tra costoro Gregorio ricorda Mauro e Placido, oggetto di miracoli del Santo, episodi immortalati da Magister Conxolus, pittore della seconda metà del secolo XIII che eseguì il ciclo con le storie di s. Benedetto nella chiesa inferiore del Sacro Speco di Subiaco. Intorno al 529 Benedetto se ne partì da Subiaco e si recò a Cassino, situato sul fianco di un monte, dove sorgeva un tempio dedicato ad Apollo e un bosco consacrato a Venere. Quivi giunto, dopo aver abbattuto il tempio pagano e distrutto il bosco, Benedetto eresse un oratorio dedicato a S. Martino e costruì un altare in onore di s. Giovanni. Ebbe così origine il celebre monastero, culla e centro dell'Ordine Benedettino. Quivi, nel 542, venne Totila, il re goto che, muovendo alla conquista di Napoli, aveva invaso la Campania e il Sannio. A Totila il santo predisse che di lì a dieci anni sarebbe morto.

Non lontano dal monastero di Cassino, lungo la valle detta Primarola, stazionavano due nobildonne che conducevano vita religiosa. Dopo la loro morte si ritirò quivi Scolastica sorella dell'abate, animata dagli stessi sentimenti e divenuta forse superiora di quel monastero. Un giorno si recò a trovarla suo fratello con alcuni monaci e trascorsero insieme la giornata intera “nelle lodi di Dio ed in santi colloqui”. Al calare della sera presero un po' di cibo per poi tornare ciascuno al proprio monastero. Ma Scolastica disse a suo fratello: “non lasciarmi per questa notte, ma fermiamoci fino al mattino, a pregustare, con le nostre conversazioni, le gioie del cielo”. Benedetto rispose che non poteva pernottare fuori del monastero; fu tuttavia trattenuto da provvidenziale tempesta. Tornarono, all’indomani, ambedue al proprio monastero. Scolastica tre giorni dopo morì; era il 10 febbraio 543.

Poco più di un mese dopo la seguì anche suo fratello Benedetto. Sei giorni prima della morte il santo si fece aprire la tomba; passò i restanti giorni in preda a una febbre altissima. Il sesto giorno si fece trasportare nell’oratorio, dove prese il viatico; quindi, “sostenendo le sue membra prive di forze, tra le braccia dei discepoli, in piedi, colle mani levate al cielo, tra le parole della preghiera, esalò l’ultimo respiro”. Era il 21 marzo 543.

L'eredità di s. Benedetto è la Regola (Regula Monachorum) che porta il suo nome e inizia con le parole “Ausculta, o fili, praecepta Magistri”.

Divisa in 73 capitoli, la prima parte è di carattere prevalentemente spiri­tuale: presenta­zione di essa, dell'abate, del mona­stero, del consiglio (Prologo-III); catalogo delle buone opere (IV); trat­tati sulle tre virtù principali: obbedienza, taci­turnità e umiltà (V-VII). La se­conda parte è piuttosto istituzionale e disciplinare: codice liturgico (VIII-XX) e penitenziale (introdotto que­st'ultimo da un direttorio dei decani, XXI-XXX); regolamento per la vita econonica, i pasti e il sonno (XXXI-XLII); codice della soddisfazione (XLIII-XLVI); divisione del tempo fra pre­ghiera, lettura, lavoro, comprese in quest'ultimo le uscite (XLVII-LII); acco­glienza degli ospiti e dei doni i quali in­troducono la questione della rinuncia alla proprietà e del vestiario (LIII-LVII); rinnovamento della comunità sia con l'aggre­gazione di nuovi membri (LVIII-LXIII), sia con l'in­sediamento d'un nuovo abate e del suo priore (LXIV-LXV); porta, clausura e uscite (LXVI-LXVII). Fanno da chiusura un'appendice riguardante le relazioni fraterne e l’epilogo (LXVIII-LXXIII).

Questo codice, composto su incarico di papa Agapito (535-36), e redatto nel corso di tre decenni (535-560 ca.), quindi oltre la morte del santo, è rimasto, fino al secolo XIII, l'unica regola in vi­gore nei monasteri d'Occidente. In questa regola, che si rifà all’esperienza dei padri del deserto, viene utilizzata , per il prologo e i primi sette capitoli, la Regula Magistri, che è un'opera anonima di un italiano, che la scrisse in­torno al 535-40, nell'ambiente di Cassiodoro. Per i successivi capitoli, che costituiscono la parte istituzionale, tra Benedetto e l’Anonimo della Regula Magistri, c'è un cammino parallelo: vi si notano influssi da parte di s. Basilio; viene utilizzato Pacomio e Cassiodoro.

La vita dei monaci riassunta nel­l'ora et la­bora, ha come fine ultimo la glo­ria di Dio (ut in omnibus glorificetur Deus, Reg. LVII), per questo è tutta incen­trata nella ce­lebrazione del culto divino, compito principale della schola domi­nici servitii. Accanto alla celebrazione eucaristica, occuparono così un posto di rilievo le ore canoniche costituite dal canto dei salmi e di inni e dalla lettura della Sacra Scrittura. I monaci distribuirono la preghiera in sette ore canoni­che, dall'alba alla mezzanotte. Si dava però importanza pure alla lettura sacra (lectio divina) e al la­voro manuale. Per ovviare ai pericoli connessi alla vita dei monaci girovaghi, ai tre voti tradizionali la regola aggiunge anche l'obbligo di non cambiare monastero (stabilitas loci).

A costi­tuire l'humus, donde germogliò il monachesimo bene­dettino, sono i con­cetti fon­damentali di uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio; no­biltà del lavoro; vanità delle ricchezze. Nel monastero non v'è infatti di­stinzione tra nobile e servo, tra ro­mano e barbaro. Il monaco non pos­sederà nulla in proprio e oltre alla preghiera, attenderà al la­voro. L'unione della preghiera con il lavoro, conside­rato come un dovere ac­canto alla preghiera, è ap­punto l'aspetto nuovo del mo­na­chesimo be­nedettino e la ragione della sua importanza anche civile. Ora et la­bora, il motto benedet­tino, è simbolo dell'unione dell'umano con il di­vino; dell'at­tività con la contemplazione e rap­presenta la sintesi di quelle ener­gie che hanno lentamente incivilito i barbari e preparato l'avvento della nuova civiltà e società medie­vale moderna.

La filosofia e la teolo­gia del lavoro imposto dalla Regola be­nedettina è il risultato di diverse tradizioni mentali che oscillano tra la stima e va­lorizza­zione del lavoro e il disprezzo del­l'attività manuale: si pensi all'e­logio clas­sico dell'O­tium che di­venta otium cum dignitate dell'ari­sto­crazia.

Nel sec. V vi­geva la divisione della società in precise ca­tegorie, secondo uno schema trinitario, abbozzato da s. Agostino: sacerdoti, guerrieri, contadini co­sti­tuiscono la società medievale. E' la base di un'antropologia trinitaria, che sarà rilanciata da s. Gregorio Magno (+ 604) e durerà fino al secolo XII. Con s. Bernardo (+ 1153) si passerà dal trinitari­smo ecclesiologico al trinitarismo so­ciale. Si pensò allora di dividere so­cietà umana in tre ordini: gli ora­tores (clero e monaci), i bellatores (militari, guerrieri), i laboratores (contadini, artigiani). Questi prov­vedono, con il loro lavoro, al so­sten­tamento di chi prega e di chi difende la co­munità. Sono tre funzioni dif­ferenti. In questo modo si realizza la perfezione e la stabilità della vita associata, con una evidente nota di solidarità. E tuttavia questi tre or­dini sono di­suguali in grado e dignità, com­plice il sistema educa­tivo, simile a quello dell'epoca tardo romana, elaborato sulla classificazione delle scienze in liberales e artes me­chanicae e portato ora avanti dai monaci e dagli ecclesiastici [Le arti liberali, im­partite dopo i primi ru­dimenti, erano suddivise in due sezioni: tre materie lingui­stiche, il co­siddetto trivium: gram­matica (cui era unita la lettura dei testi classici e patristici), reto­rica, dialettica; poi le quat­tro di­scipline matematiche, il quadri­vium: aritmetica, geometria, astro­nomia, musica].

Da quanto so­pra, sembra go­dere un privilegio d'o­nore la classe degli in­tel­lettuali, a scapito dei lavoratori manuali, anche se l'i­conografia esalta spesso la mano di Dio. Nasce l'ambivalenza del­l'otium e del negotium. L'ambiguità del termine la­bor evidenzia le connotazioni negative di fa­tica e di peso, mentre opus si riferi­sce piut­tosto all'esito dell'impegno. Si parla di opus Dei (liturgia) e di opus ma­nuum, que­sto è qualificato come opus servile, la­voro degli schiavi. Nella menta­lità medie­vale, laborare corrisponde alle atti­vità agricole che sono il compito dei servi de­maniali. In confronto si elogia la vita con­templativa, il ri­poso di Dio, nu­trito di lectio di­vina e di liturgia è il tema del De vita contemplativa di Giuliano Pomerio (PL. 59, 415A - 520A) che alimentò set­tori importanti del mondo mo­nastico ascetico.

Le comunità monastiche hanno sempre elogiato il la­voro manuale. Tutte le regole monasti­che le prescri­vono: da Giovanni Cassiano (ca. 432/433) a s. Benedetto; ma l'ora et labora be­ne­det­tino è l'espressione di una promozione mo­nastica del lavoro che viene asso­ciato con pari di­gnità alla preghiera e viene inter­pretato come penitenza e come imitazione degli apostoli e dei padri del mona­chesimo, ancorché venga richiesto dalla necessità di prov­ve­dere alle urgenze pro­prie e del monastero.

Nella regola di s. Benedetto è la stessa comunità che, attraverso l'abate, si fa datore di lavoro per i suoi compo­nenti. Si lavora ogni giorno (cap. XLVIII): in qualche caso anche a distanza dagli edifici conventuali; donde la necessità di cele­brare qualche ora li­turgica nel luogo stesso del la­voro (cap. L). La co­munità, deli­neata dalla Regola di s. Benedetto, vuol essere autos­suffi­ciente. Il monastero, se è possibile, sia co­struito in modo che abbia tutto il necessario: acqua, un mulino, un orto e quanto ne­ces­sita per l'eser­cizio delle arti diverse nella sua clausura, onde i monaci non deb­bano andare fuori vagando, il che non giova affatto alle loro anime (cap. LXVI). Il la­voro è artigianale, manuale e intel­lettuale. Il legislatore pre­vede circostanze nor­mali, ma anche ec­cezionali (cap. XLI), mentre in modo categorico esclude l'o­zio "che è il nemico dell'anima e perciò i fratelli devono es­sere occupati, ad ore stabi­lite, nel lavoro manuale e in altre ore devono dedicarsi alla lettura" (cap. XLVIII). I prodotti del la­voro monastico sono venduti e il mo­nastero in quanto comunità ne trae vantaggio, senza tutta­via trasformarsi in una società a scopo di lu­cro, mentre il legisla­tore richiama all'umiltà i monaci che con­tri­buiscono in questo modo alle necessità di tutti (cap. LVII). Il lavoro si svolge poi in si­lenzio, come del resto tutta la giornata monastica (cap. VI). In questo modo si accentua il clima orante della comu­nità, tutto orientato in funzione di una ricerca di Dio che si svolge nella realtà degli incarichi e nel rispetto del cammino spirituale di ciascun mo­naco.