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Il fedaulesimo

Lo spezzettamento dell'unità dello Stato nella molteplicità dei feudi


Papa Giovanni VIII (872-882), che non era riuscito a dominare le note­voli difficoltà createsi in Oriente con Fozio, fu altrettanto debole in Occidente, con l'Impero: nell'875, conferì la corona imperiale a Carlo II il Calvo di Francia, quantun­que ne avesse più diritto Ludovico il Germanico, il migliore dei figli di Ludovico il Pio.

Dopo l'insignifi­cante impero di Carlo il calvo, rimase imperatore Carlo III di Svevia, detto Carlo il grosso (881-887), il più giovane figlio di Ludovico il Germanico, so­vrano d'Allemagna e d'Italia. Papa Giovanni VIII nell'881 gli con­ferì la corona, mentre, per una serie di circostanze, Carlo riunì nelle sue mani, dopo l'885, tutto il vasto impero.

Nessuno dei due imperatori fu tuttavia di valido ap­poggio al papa che li aveva incoronati e ormai in balia dei nobili italiani e dei sara­ceni cui fu co­stretto a pagare un tributo annuo.

Carlo il grosso, da parte sua, non fu in grado di governare l'im­pero. Il suo trepido atteggiamento verso i Normanni, che erano giunti ad assediare Parigi (885-886), in­dusse i grandi del regno a deporlo dal trono (dieta di Tribur, 887). Così finiva l'impero carolingio, ormai non più un organi­smo unitario, ma aggre­gato di contee e di mar­chesati: le autorità peri­feriche nelle mani delle quali si erano ve­nute di fatto concentrando le attribuzioni della sovranità.

La crisi delle istituzioni

Ebbe origine così il mondo feu­dale, caratte­rizzato dallo spezzettamento dell'unità dello Stato nella molteplicità dei feudi. Arnolfo fu rico­nosciuto re di Germania, Oddone dei Franchi, Ludovico re di Provenza, mentre Berengario, marchese del Friuli (d'origine franca, falso carolingio), si autoproclamò re d'Italia.

A Roma, a Giovanni VIII, avvelenato e poi assassinato (15/12/882) da un complotto -il primo papa ucciso di morte vio­lenta- succedettero: Marino I (882-84) già vescovo di Cere -un'eccezione contro l'antica tradizione che proibiva la traslazione di un vescovo da una sede all'al­tra- Adriano III (884-85), e Stefano V (885-91), persona non grata a Carlo il grosso, deposto il quale (887) si fece più pressante sul papato l'influenza di Guido duca di Spoleto. Questi, dopo aver sconfitto Berengario del Friuli costrinse papa Formoso (891-96), già missionario fra i Bulgari e vescovo di Porto, a incoronare suo figlio Lamberto (30 aprile 892).

Papa Formoso tuttavia cercò di liberarsi dai vincoli dei principi della casa di Spoleto e si rivolse a Arnolfo, re di Germania il quale, ve­nuto a Roma, quando Guido era già morto, ma viveva suo figlio Lamberto, fu incoronato im­peratore (22 febbraio 896). Questa in­coro­nazione fu però pagata a caro prezzo, poiché papa Stefano VI (896-97), creatura degli Spoletani e nemico dei Franchi, fece esu­mare il cadavere di Formoso (4 aprile 896) e in un sinodo, seguendo la pro­cedura germa­nica che ammetteva si potesse tradurre in giu­dizio i cadaveri, stante il principio che al processo era necessario la presenza del corpus delicti, ne fece dichiarare illegittimo il pontifi­cato, perché aveva cambiato la sua sede vescovile con un'altra, per ambizione e dichiarò nulle le ordi­nazioni da lui conferite. Secondo la tradizione, sarebbe stato di origine romana, e figlio di un prete di nome Giovanni.

Stefano VI fu nominato vescovo di Anagni da Papa Formoso, forse contro la sua volontà. Le circostanze della sua elezione non sono chiare, ma venne sponsorizzato da una delle potenti famiglie romane, la Casa di Spoleto, che all'epoca era in competizione sia per il Papato che per l'Impero.

Nel gennaio dell'897, Stefano VI ordinò un processo per sacrilegio, chiamato poi "sinodo del cadavere" (synodus horrenda): l'imputato fu infatti il cadavere riesumato del defunto Papa Formoso, come abbiamo detto , ritenuto colpevole di essere salito al soglio pontificio grazie all'appoggio del partito filogermanico, e senza rinunciare alla sua precedente sede vescovile di Porto (Ostia). Il cadavere fu spogliato degli abiti pontificali; le dita della mano destra gli vennero amputate.

Probabili istigatori di Stefano furono i vecchi nemici di Formoso, Lamberto da Spoleto (Imperatore eletto) e sua madre Ageltruda, che avevano ristabilito il loro prestigio a Roma verso l'inizio del 897 abbandonando le loro altre pretese sui territori dell'Italia centrale. Il processo, con il conseguente strazio del cadavere, suscitò una rivolta popolare in tutta Roma. La rivolta si concluse con la cattura di Stefano, che venne imprigionato a Castel Sant'Angelo, e ucciso per strangolamento nell'estate dello stesso anno.

Del breve pontificato di Stefano VI si ricordano, oltre al synodus horrenda, soltanto le forzate dimissioni di alcuni vescovi ordinati da Formoso e la concessione di speciali privilegi ad alcune chiese. Sul piano politico, Stefano fu coinvolto nel conflitto fra Lamberto da Spoleto e Arnolfo di Carinzia, entrambi pretendenti alla corona del Sacro Romano Impero, senza peraltro giocare un ruolo significativo.

Al posto di Stefano VI fu eletto Teodoro II (897), cui successe Giovanni IX (898-900) il quale riparò l'oltraggio, fatto a Formoso, annullando gli atti del Synodus ad ca­daver.

L’epoca feudale

Nel secolo IX, nell’Europa carolingia, si diffondono gli istituti legati al vassallaggio e al beneficio che, dal sec. XI sarà chiamato feudo.

Mediante il vassallaggio, l’aristocrazia laica ed ecclesiastica si legò alla famiglia regnante. Si stabilì una carta di diritti e di doveri dal vassallo con il senior, sia esso il re o un’altra persona. Il beneficio ( concessione di terre) fu inizialmente concesso dal proprietario a titolo tempornaeo, dietro un servizio, detto vassallatico. La compenetrazione tra regnum e sacerdotium fece sì che i vescovi divenissero i principali collaboratori degli imperatori carolingi. Ben presto però l’istituto entrò in crisi per l’incapacità dei sovrani che si succedettero, finché, con la deposizione di Carlo il grosso (887), Italia e Francia si trovano una spaventosa decadenza. Violenza e terrore dominavano un po' ovun­que. Continue incursioni dei Normanni, Saraceni e degli Ungari an­davano saccheggiando innu­merevoli città e monasteri, devastando intere re­gioni. Così che, nel secolo successivo, definito secolo oscuto o ferreo, trionfò l'elemento deteriore del feudalesimo.

Tre gli elementi che caratterizzano il feudalesimo: il vassallaggio, il beneficio e l’immunità.

Il vassallaggio è un vincolo morale e personale fra chi chiede e chi con­cede protezione (commendatore). Presso i Franchi l'atto di mettersi sotto la protezione di qualcuno veniva detto munde­burdio, mentre le persone commen­date era dette vassi, da cui vassalli; questi, presso i Longobardi, erano detti gasindi. Si contraeva mettendo le mani nelle mani del com­mendatore, per cui il commendato diventava homo della persona cui si affidava (da cui homagium). L'omaggio comportava l'obbligo di fe­deltà per chi faceva l'omaggio e di pro­tezione per chi lo riceveva.

Il beneficio è la terra che il vassallo riceve dal senior (da cui la parola signore nel significato di padrone). La cessione, origi­nariamente, era a titolo gra­tuito e revocabile, ed era in rapporto a un servizio, per lo più servizio militare. Precaria si diceva il docu­mento emesso da chi faceva domanda (precarista ) cui corri­sponde la prestaria, il documento del concedente. L'immunità consisteva nell'esenzione dagli oneri pubblici (non si sot­tostava agli oneri comuni) e comportava il diritto di regalìa. Lo Stato venne così a spo­gliarsi delle sue prerogative, tra­sferendone l'esercizio ai privati.

La società feudale consta di due classi sociali ben distinte: i feuda­tari e i servi della gleba.

I feudatari, posseggono di fatto, la terra ed esercitano l'autorità. I servi della gleba vivono sulla terra del signore e sono tenuti a oneri personali (giornate lavorative sulla parte padronale, corvées) e oneri reali (tributi per certi atti, e.g. taglie per il matrimo­nio, o la successione ereditaria; o per l'uso di beni padronali, e. g. la banalità per il forno, i ponti, i pa­scoli). L'economia feudale è un'eco­nomia chiusa (ogni feudo è au­tosufficiente) naturale (scambio in na­tura), agricola.

A dare una svolta al vassallaggio fu il Capitolare di Quiercy sur Oise, emanato da Carlo il Calvo nell'877, uno dei testi di legge più famosi del diritto feudale, in forza del quale i benefici maggiori perdettero il loro carattere origi­nario di concessione libera e revocabile, divenendo perpetui ed eredi­tari.

Il che comportò uno stravolgimento della nozione di carica pubblica e della natura del beneficio. Divenendo ereditaria la carica di conte, lo Stato si veniva a spogliare della sua capacità di gestire la funzione pubblica di conte, ormai nelle mani dell’aristocrazia ereditaria. Al diritto ereditario delle famiglie comitali seguì la formazione di grandi possessi fondiari. In forza della Capitolare de Villis, che Carlo aveva emanato agli inizi del secolo IX, le enormi proprietà erano divise in villae e curtis e il loro sfruttamento avveniva mediante un sistema che comportava una riserva di terre padronali fatte a gestione diretta e dei lotti, detti mansi, con casa colonica, affidati in godimento ai coloni in cambio di corvées, o di affitto. L’aristocrazia, per aumentare il potere, cercò di estendere la ricchezza fondiaria e cercò di accaparrarsi la forza lavoro dei contadini. In ciò furono aiutati dai piccoli proprietari (allodieri) sui quali, oltre che sui vassalli, gravavano una serie di obblighi. Così fu giocoforza per molti allodieri cedere le loro terre ai grandi proprietari laici o ecclesiastici, per riaverle indietro in gestione.

Non meno grave di conseguenze, l'estensione del­l'immunità alla Chiesa. Vescovi e grandi abati, con Carlo Magno, erano dive­nuti missi do­minici per­manenti. Costoro esercitavano le proprie funzioni non direttamente -per il prin­cipio che la Chiesa non ha l'uso della spada- ma mediante laici, chiamati avvo­cati o vicedomini.

Nel secolo X, anche l'ufficio dei missi do­minici, ap­pannaggio della nobiltà laica ed ecclesiastica, fu feudalizzato, passando così da fattore di unità, a forza che operò in senso decen­tralizzatore.

Fu a partire da Ottone I (951) che vescovadi e abbazie vennero tra­sformati in grandi feudi. La funzione di pastore di anime, propria del vescovo, venne così sacrificata per quella di funzionario statale e, in tal modo, i rapporti tra Chiesa e Stato subi­rono un pro­fondo cambiamento.