Pasquale II (1099-1118)

 

STORIA DELLA CHIESA

I PONTEFICI

  

Morto Urbano II, i cardinali e il clero scelsero il card. Rainerio, cui fu dato il nome di Pasquale II (1099-1118). Egli, pro­seguendo la riforma gregoriana, nel si­nodo romano, tenuto nella quaresima del 1102 al Laterano, rinnovò la proibi­zione dell'investi­tura laica e fece sottoscri­vere ai presenti una confessione di fede e di obbedienza e infine rin­novò in forma solenne la scomunica con­tro Enrico IV il quale, dal 1098, aveva associato al regno il figlio  Enrico V. Questi però, nel 1104, si ri­bellò al padre e, con l'aiuto del partito gregoriano, nel 1106 sconfisse suo padre Enrico IV, costrin­gendolo ad abdicare. Enrico si ritirò allora a Liegi dove, di lì a poco, ancora gravato dalla scomunica, morì.

                Nel frattempo, nel 1100, era scomparso l’antipapa Clemente III (Viberto di Ravenna), cui erano succeduti papi scismatici, eletti senza alcuna partecipazione  di Enrico IV, di colui cioè che era stato l'autore dello  scisma. Scomparso dalla scena politica an­che quest'ultimo, lo sci­sma imperiale volse rapidamente al ter­mine.

                Pasquale II pensò allora di risolvere l'annosa questione delle inve­stiture e si accordò per un incon­tro con Enrico V (1106-25)  in Germania. Lungo il tragitto sostò a Guastalla, nella pianura padana, dove tenne un concilio  (22 ottobre 1106) in cui rinnovò la con­danna dell'investitura laica, ma fu indul­gente verso coloro che erano stati ordinati durante lo scisma, facendo una sanazione ge­nerale. Quindi Pasquale II si avviò verso la Germania; ma, giunto a Verona, ritenne opportuno di non proseguire per Augusta, come era stato stabilito, così si diresse in Francia e, a Chalôn-sur-Marne,  si incontrò con i legati di Enrico V.

                La concezione grego­riana del­l'in­vestitura, di nuovo si scontrò con la tesi già sostenuta da Enrico IV e ora fatta propria dal Enrico V: così il contrasto fra le due po­sizioni si rivelò irri­ducibile. L'impossibilità di conciliare le due op­poste po­sizioni dipendeva dal con­cetto dei regalia. Nel sistema feudale del regno tede­sco, i regalia comprendevano in blocco pos­sessi e diritti annessi all'uf­ficio del vescovo per cui Enrico conside­rava suo diritto conferirli al ve­scovo, al momento della con­sacra­zione, con l'anello e il pastorale, che erano le forme del tempo dell'investi­tura. Ma anello e pastorale erano an­che i simboli del conferimento del potere spirituale del ve­scovo, come pa­store del suo gregge. Da qui l'irriducibilità del contrasto.

                 Gli sforzi per la riforma della Chiesa erano stati rivolti dai papi ri­formatori anche verso gli altri paesi cristiani, in particolare verso la Francia e l'Inghilterra, paesi con i quali tuttavia, a diffe­renza dell'im­pero, i pontefici tennero un atteggia­mento più mite e riguardoso.

                Così in Francia dove, grazie all'attività svolta dai clu­niacensi, il partito ri­formatore contava il maggior numero di ade­renti, il re Filippo IV (1060-1108)  era stato da Gregorio VII minac­ciato di scomunica e di de­posione per simonia e oppressione della Chiesa, senza che tuttavia si desse ese­cu­zione alle minacce. Quindi, sotto l'influenza delle idee di Ivo di Chartres, a par­tire dal 1098, dopo lunghe trattative col papa francese Urbano II, Filippo e gli al­tri grandi di Francia rinunciarono all'investi­tura con l'anello e il pastorale, otte­nendo in cambio il diritto di appro­vare la loro ele­zione ecclesiastica, di investire con le temporalità l'e­letto e di rice­vere il giuramento di fedeltà.

                Più complicata la situazione in Inghilterra, dove re Guglielmo di Normandia 'il conquistatore' (1066-1087),  si era impadronito del po­tere, consensiente Alessandro II. Nella nomina e nell'investi­tura dei prelati praticò il vecchio sistema, senza tuttavia  entrare in rapporti conflittuali la Curia anche perché, con l'aiuto dell'arcive­scovo Lanfranco di Canterbury (1070-89) e dei legati papali, favorì la riforma della Chiesa e prese posizione contro la simonia e il concubinato degli ecclesiastici, epurando il clero indegno.

                Suo fi­glio Guglielmo II il Rosso (1087-1100),  che si era pronunciato a fa­vore di Urbano II contro l'an­tipapa Clemente III, poiché faceva commercio delle cariche ecclesiasti­che  e usurpava i beni della Chiesa, entrò in conflitto con s. Anselmo, nuovo arcivescovo di Canterbury (1093-1109): per questo lo costrinse a fuggire in Francia.

                Anselmo, originario di Aosta, monaco e maestro nel mona­stero di Bec in Normandia, considerato il padre della scola­stica -il suo metodo si enuncia nelle proposizioni: fides querit intellec­tum; Neque enim qua­ero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam- tornò alla sua sede sotto Enrico I (1100-1135).  Avendo tuttavia ri­fiu­tato  di prestare giura­mento di fedeltà feudale al re, Anselmo fu di nuovo costretto ad andare in esilio (1103).

                La questione delle investi­ture inglesi  fu oggetto di discussione  dall'una e dall'altra parte, dando origine a numerosi libelli. Il mi­gliore contributo fu dato da Ugo di Fleury nel suo De regia pote­state et sacer­dotali dignitate, scritto nel 1103-1104,  in cui sostiene una soluzione di compromesso rispetto alle posizioni  di Pasquale II e di Enrico V, sugge­rendo di lasciare libera l'e­lezione dei vescovi e as­segnando all'arcive­scovo consacrante la conse­gna dell'anello e del pastorale, sim­boli della cura animarum; subito dopo l'elezione il nuovo vescovo doveva però ricevere dalle mani del re l'investi­tura delle cose temporali.

                La di­stinzione dei due poteri, fatta da Ugo di Fleury, riu­sciva in effetti a chiarire la questione delle inve­stiture, avviandola verso la so­luzione. Ciò avvenne ad opera di s. Anselmo il quale, nel 1105, si ac­cordò con Enrico. Questi rinunciò al­l'investitura spirituale  con l'anello e il pastorale; in cam­bio Anselmo prestò il giuramento feu­dale: un compromesso mal tollerato da papa Pasquale II, ma che tuttavia assi­curò la pace in Inghilterra.

                Fallite le trattative a Chalôn-sur-Marne, Pasquale II si trattenne an­cora in Francia, celebrando, a Troyes (23 maggio 1107), un concilio,  detto universale per la grande affluenza di ve­scovi e in cui rin­novò i decreti contro l'investitura laica e il clero uxorato. Quindi tornò a Roma dove tenne un concilio nel marzo 1110 confermando i canoni di Troyes.

                 Nel frattempo, durante il 1109, era stato messo in circolazione l'opuscolo Tractatus de investitura episcoporum di un ec­clesiastico di Liegi il quale, su richiesta dell'imperatore, in procinto di scendere in Italia: difendeva la legittimità giuridica dell'investitura imperiale sulla base della con­cessione  ai dignitari  ecclesiastici dei beni e dei diritti feudali.

                Il polemi­sta di­stingue la situazione della Chiesa apostolica dei primi secoli, dalla Chiesa co­stanti­niana. Da Pietro -egli scrive- fino a Silvestro, che bat­tezzò Costantino, gli impera­tori romani erano pagani e perseguitavano i cristiani e le chiese erano povere di poderi e di beni ecclesiastici e i ve­scovi venivano costituiti  a Roma e altrove dai cristiani timorati di Dio, i quali erano allora pochi. Il polemi­sta  sfrutta quindi, con abilità, il de­creto evangelico e apostolico della libertà della Chiesa dei primi secoli nell'esercizio del ministero pastorale. La chiesa apostolica non era angu­stiata da com­promissioni politiche,  eccetto quella di esistere e di vivere in uno Stato di persecuzione legale e di tolleranza tacita; anzi s'atteneva alla norma di Gesù Cristo stesso nel ricono­scimento dell'autorità imperiale. Dopo di che passa a giustificare la feu­dalizzazione della gerarchia ecclesia­stica, richiesta dalla difesa della civiltà cri­stiana, di cui l'imperatore è tu­tore respon­sabile.

                La povertà evangelica viene così sacrificata al bene e alla sicu­rezza dell'Im­perium che coincidono con quelli della Chiesa e dello stesso popolo di Dio.

                E così il polemista esemplifica: "Gregorio I (nell'Ep. lib. XII, 47 diretta a Ecclesio, ve­scovo di Perugia) si lamenta con dolore di un certo vescovo che era talmente povero da non poter avere dal suo ve­scovado una veste invernale con­tro il freddo; da un tale vescovo, forse santo, non era necessario che il re esi­gesse l'omaggio, il giu­ramento, le garanzie".

                L'opuscolo era indubbiamente provocatorio, ma Pasquale II, grazie al suo ideale monastico e canonicale, si dimostrò disponibile a questa provocazione po­lemica,  anzi la tradusse in pratica, nel concordato di Sutri (4 febbraio 1111): "l'ac­cordo più terribilmente rivoluzionario di età medievale". 

                Le cose andarono così. Sul finire del 1110  Enrico V scese in Italia, con un esercito di 30.000 uomini, per restaurare l'auto­rità germanica in questa terra e ot­tenere la corona imperiale. Giunto ad Acquapendente (gennaio 1111),  incontrò i legati dei Romani e con loro condusse trattative a Sutri. L'accordo venne prose­guito a Roma nella piccola chiesa di S. Maria in Turri, nel portico della basilica di S. Pietro.

                A nome del papa, un esponente dei Romani -il laico Pierleone, ebreo convertito- pose come condizione per l'inco­ronazione imperiale che Enrico V ri­nunciasse alle investiture. La ri­chiesta non venne accolta perchè per Enrico i re­galia erano annessi agli uffici ecclesiastici e rap­presentavano essenziali  diritti  della co­rona sui quali si basa l'ordina­mento del regno di Germania.

                Di fronte a questa decisa opposizione i rappresentanti del papa avan­zarono un'idea nuova e radicale, cioè la rinuncia da parte dei ve­scovi tedeschi a tutti i re­galia. Su questa base, di reciproca rinun­cia, fu raggiunto un accordo di massima stipulato il 4 febbraio 1111 a S. Maria di Turri.

                I legati di Enrico promisero che il re:

                "dal giorno del­l'incoronazione avrebbe rinunciato,  per iscritto, a qual­siasi investitura di chiese, nelle mani del papa e presenti il clero e il po­polo, dopo  che il papa, a sua volta, avrà fatto la dichiarazione prevista nell'altra carta circa i regalia. Quindi il sovrano promet­terà, con giura­mento, di non immischiarsi più per l'avvenire nelle investiture: egli la­scerà libere le chiese con quelle offerte e con quei possedimenti che si potrà dimostrare non appartenere al re­gno".

                Così Enrico V rimetteva l'investitura ecclesiastica nelle mani del papa. Da parte sua Pierleone, a nome del papa, promise che, dal giorno dell'incoronazione imperiale, avrebbe ordinato ai ve­scovi di rinunciare a tutti i regalia.

                Questo ac­cordo, concluso a S. Maria in Turri e accettato da Enrico, è il primo concordato della storia della Chiesa: è infatti un patto bilaterale, con con­cessioni reciproche sancite nei documenti delle parti. Possediamo i testi preparati dalle rispettive cancellerie.

                Il Decretum Heinrici de bonis ecclesiarum -formulato generica­mente e senza nominare le investiture- si impegnava a lasciare alle chiese i beni non feudali.  Il Privilegium Pascalis rinnovava invece le proibizioni del­l'in­vestitura laica fatte nei concili di Gregorio VII e Urbano II, si richia­mava alla ri­nuncia fatta da Enrico V nella con­venzione di S. Pietro e proibiva agli ecclesiastici di te­nere d'ora in poi le regalie.

                Questo do­cumento papale è pervaso di un asceti­smo pa­sto­rale:

                "in alcune parti del regno di Germania -vi si legge- il ve­scovo e gli abati sono ancora occupati in cure secolari nello sforzo di ac­crescere la contea e di esercitare la mi­lizia; le quali cose in nessun modo è possibile fare senza rapine, sacri­legi, incendi, omicidi. Così i ministri dell'altare sono diventati ministri della curia, poiché hanno avuto dal re città, ducati, marche, monete, castelli e altre cose riguar­danti il servizio del regno".

                Per Pasquale II la proprietà ecclesia­stica, non più vincolata al servizio feu­dale, deve tor­nare ad essere semplice mezzo temporale per il servizio episcopale:

                 "è ne­cessario infatti che i vescovi, liberi da preoccupazioni secolari, si prendano cura della loro popolazione e che non stiano più a lungo lon­tani dalle loro chiese".

                Con Pasquale II la libertas delle elezioni ecclesia­stiche, rivendicata dalla santa Sede, abbandona così la con­cezione gre­goriana, secondo la quale il tempo­rale nell'episcopato  è inseparabile dallo spiri­tuale, e si sposa con l'esigenza di poter compiere evangelica­mente il ministero pa­sto­rale.

                 Quest'episodio -scrive Zerbi- mantiene ancor oggi nella vita della Chiesa il valore di un segno dei tempi, percepito al vertice stesso del pa­pato:  "si tratta di uno di quei momenti in cui certe forze ideali, che co­stituiscono la sostanza del messaggio cristiano, inappagate o compresse dalle forme concrete in cui la Chiesa viene attuando la sua presenza nella storia, erompono e si affermano con un'in­tima forza che non si piega ad esigenze pratiche e politi­che". 

                L'imperatore aveva acconsentito di disinteressarsi delle ele­zioni episcopali,  a condizione che i beni annessi alle diocesi tor­nassero alla corona. Ma non fu sin­cero: abilmente preordinò la re­azione dell'epi­scopato feudale e fu inflessibile nel far recedere, an­che psicologica­mente, il papa dal proposito di riportare la Chiesa alla libertà dell'evan­gelismo in nome della stessa libertà della Chiesa.

                Le cose an­darono così. I testi dei due privilegi vennero pre­sentati a Enrico V, che allora si tro­vava a Sutri. Il re li ratificò il 9 febbraio, ma con la riserva che le clau­sole  ri­guardanti l'investitura fossero accettate dai vescovi tedeschi. I due documenti si sareb­bero poi dovuti scambiare il giorno dell'incoro­nazione  imperiale. Per intanto si accontentò di giurare che avrebbe ga­rantito la sicu­rezza del papa. Ma fu una mossa perfida quella di Enrico V: era in­fatti sicuro che i prelati tedeschi si sareb­bero ribellati perché il concordato ledeva i loro interessi materiali.

                Conclusesi  le conven­zioni, Enrico V proseguì la marcia su Roma e si pre­sentò a S. Pietro per la ce­rimonia dell'incoronazione, fissata per il 12 febbraio. Ma durante la funzione, alla richiesta del papa di presentargli il suo decretum con la rinuncia all'investiture, Enrico V si rifiutò, appel­landosi al rifiuto oppo­sto dai ve­scovi e dai principi tede­schi.

                Pasquale II, sospese allora la ce­rimonia dell'incoronazione e, incu­rante delle minacce, proseguì la ce­lebrazione della s. messa. Il papa fu fatto allora prigioniero in S. Pietro dai tedeschi, con l'in­tenzione di costringerlo con la forza a ratificare le pretese impe­riali dell'investitura dei vescovi. Ma il giorno dopo scoppiò una ri­volta dei Romani, duramente repressa dopo tre giorni di combat­timento. Enrico, non sentendosi però sicuro, si ritirò con il suo esercito fuori Roma, portando prigio­niero Pasquale II e i suoi cardinali.

                Prigioniero  per due mesi a Trebicum (Tribucco in Sabina) e sotto la minac­cia di terri­bili rappresaglie, anche contro la chiesa, per evitare mali maggiori Pasquale II promise di dichia­rare, con un solenne editto, che il re aveva il diritto  di dare l'inve­stitura ai vescovi e agli abati, a condizione  che fossero eletti senza simonia e liberamente, ma con il con­senso regio.

                Riferi­sce la Chronica monasterii Casinensis che Pasquale II, nel riconoscere il privilegium sull'investitura laica di Enrico V, avrebbe detto: "sono co­stretto per la liberazione e la pace della Chiesa a sopportare que­sto, a permet­tere ciò a cui in nessun modo acconsenti­rei  per sal­vare la mia vita".

                 Il privilegio, che reca la data 11 aprile 1111, con­cedeva al re l'investitura laica, accettando che vescovi e arcive­scovi si limitino ad avere la libertà di consa­crare canonicamente i vescovi e gli abati investititi dal re, al fine placare i dissensi  della maestà regia sulle investiture:

                "i predecessori di Enrico V avevano infatti così arric­chito le chiese del regno di tante loro regalie, da dover fondare il regno stesso sulla forza dei vescovi e degli abati".

                Pasquale II concedeva due cose a Enrico V: l'assensus regio prece­dente l'elezione canonica e l'in­vestitura con l'a­nello e il pastorale. Così l'elezione  del clero e del po­polo e la stessa consacrazione del metropolita si riducevano ad una mera formalità.

                Il partito impe­riale sconfig­geva pertanto quello della ri­forma gregoriana che aveva chiesto una Chiesa indi­pendente dall'auto­rità civile. Mentre era stata riconosciuta ed approvata dalla Santa Sede, ad onta dei decreti di Gregorio VII e di Urbano II, la teoria dell'inve­sti­tura,  quale l'aveva definita l'ec­clesiastico di Liegi nel Tractatus de inve­stitura episcoporum.

                 Domenica 13 aprile Enrico V si fece incoronare in S. Pietro, rice­vendo, dopo la comunione, il privilegium papale e, al termine della ceri­monia, si fece dare dai Romani il titolo e la corona di pa­tricius: che si­gnificava i diritti dell'impero  sul papato, così come aveva fatto Enrico III, nel 1046.

                Prevedibile la reazione gregoriana, del resto già iniziata du­rante la prigionia di Pasquale II. Il privilegio si chiamò subito pravi­le­gium. Pasquale II però, a lungo, tenne fermo alla promessa fatta ad Enrico V, finché cedette alle insistenze che gli venivano da ogni parte e annunciò il proposito di ritirare il privilegium.

                A tal fine con­vo­cò un conci­lio, aper­tosi il 12 marzo 1112 al Laterano, presenti più di cento vescovi. Il papa, in pubblica assemblea, pur di non violare il giuramento fatto, fece una professione di fede in cui di­chiarava di accettare o condan­nare tutto quello che avevano accet­tato o condannato i concili ecume­nici e i suoi predecessori Gregorio VII e Urbano II, in particolare i de­creti sull'inve­stitura laica, senza tutta­via nominare il privilegium. Dopo di che il conci­lio cassò il privilegium estorto da Enrico V.

                Il papa, dopo il concilio  del 1112, si occupò dell'Italia meri­dionale, tenendo concili a Benevento (1113), Ceprano (1114), Troia (1115). Nel 1116  di nuovo convocò un concilio  al Laterano, in cui si affrontò anche la questione di Enrico V.

                L'imperatore, che nel frattempo era stato sco­municato da numerosi concili [i primi quelli di Vienna (1112) e di Gerusalemme], proprio mentre si apriva il concilio, era sceso in Italia per rivendicare i possessi che la contessa Matilde (+ 24 luglio 1115) aveva  lasciato alla Chiesa ro­mana, e se ne impossessò.

                Il papa, nel concilio romano del 1116, rinnovò la condanna del privilegium estortogli, ma non acconsentì alla richiesta di Brunone di Segni il quale voleva che si dichiarasse che il pravilegium era un'eresia appunto l'haeresis de inve­sti­tura, al pari delle eresie nicolaitica e si­moniaca; ma ciò avrebbe si­gnifi­cato tacciare di eretico anche il papa il quale nep­pure volle sco­municare Enrico V.

                 Il re di Germania era rimasto a lungo nell'alta Italia e, al principio del 1117, richiesto dal prefetto e dai consoli, si avvicinò a Roma. Pasquale II, me­more della prece­dente esperienza del 1111, si ritirò allora a Benevento anche perché la situazione a Roma era precaria. Il 30 marzo 1116 era infatti morto il prefetto di Roma e i suoi fau­tori volevano che l'ufficio fosse dato a suo figlio, mentre il papa voleva favorire il figlio di Pierleone che gli era assai devoto; un movimento popolare si pronunciò però contro il suo candidato e a favore di Cencio Frangipani. 

                Enrico V entrò a Roma senza diffi­coltà, non riuscì però a farsi coronare da un cardinale e dovette accontentarsi di Maurizio Burdino, l'arcivescovo porto­ghese di Braga, di passaggio a Roma che lo incoronò in S. Pietro. Questi, in compenso, si guada­gnò una scomunica dal concilio di Benevento, presenti 113 prelati presieduti dal papa. Quivi Pasquale II cercò l'aiuto dei Normanni e così po­te' tornare a Roma, ma solo per mo­rirvi alcuni giorni dopo (+ 21/I/1118). Fu se­polto al Laterano per­ché i consoli non permisero che fosse sepolto in Vaticano.